Carcerati dimenticati, campesinos discriminati, giovani che crescono in mezzo a città insanguinate, preti di frontiera, migranti disperati. Parla (soprattutto) a loro Francesco, «Papa del nuestro pueblo». Il viaggio in Messico ha confermato quanto era stato a Bangui, Manila, La Paz, Rio de Janeiro: c’è un mondo, la maggioranza del mondo, che ha in Bergoglio il volto, la voce, i gesti e le azioni in cui riconoscersi.
Ieri il viaggio – iniziato a Cuba per l’incotnro storico con Kirill – si è concluso a Ciudad Juarez, frontiera nord est davanti alla texana El Paso. Gli Stati Uniti, Los Estados Unidos, sono lì davanti, a una ventina di metri, forse meno. Nel mezzo c’è il rigagnolo del Rio Grande, e una rete metallica. Il Papa sale su una pedana in muratura costruita da pochi giorni, con una grande croce nera. E lì, guardando quella barriera che milioni di disperati del grande continente americano sognano di oltrepassare, prega. Qui, nella città fino a poco tempo considerata la più pericolosa al mondo per l’enorme numero di omicidi e femminicidi per mano dei cartelli del narcotraffico («una metastasi che distrugge») e dei mercati di essere umani, c’è il fermo immagine di un papato che non indulge allo spettacolo, ma che deve fare i conti con il carico di speranza che porta con sé, della leadership planetaria che esercita senza bombardieri. «Mai più morte e sfruttamento!» ha detto nella grande celebrazione a 200 mila persone in terra messicana e 50mila che lo seguivano da El Paso. Una messa transfrontaliera, senza passaporti né carte verdi: «Sono fratelli e sorelle che partono spinti dalla povertà e dalla violenza, dal narcotraffico e dal crimine organizzato – dice il Papa parlando dei migranti –. A fronte di tanti vuoti legali, si tende una rete che cattura e distrugge sempre i più poveri. Schiavizzati, sequestrati, soggetti ad estorsione, sono oggetto di commercio del transito umano». Anche in Usa le parole arrivano forti, specie in questo scorcio di elezioni, dove la barriera anti-migranti è come sempre oggetto di propaganda. «Non possiamo negare – ha detto Bergoglio –la crisi umanitaria che negli ultimi anni ha significato la migrazione di migliaia di persone, sia in treno, sia in autostrada, sia anche a piedi attraversando centinaia di chilometri per montagne, deserti, strade inospitali. Questa tragedia umana che la migrazione forzata rappresenta, al giorno d’oggi è un fenomeno globale».
Non c’è filtro politico nella pastorale bergogliana, quando è in mezzo alla gente. E così eccolo dentro il carcere Cereso n.3, uno dei più grandi: abbraccia i detenuti e spende parole anche per i carcerieri. E il messaggio (per il tutto il mondo, ma forse l'indirizzo più rapido è di là dal confine): «Già abbiamo perso diversi decenni pensando e credendo che tutto si risolve isolando, separando, incarcerando, togliendosi i problemi di torno, credendo che questi mezzi risolvano veramente i problemi». Insomma, pensare che il carcere sia sinonimo di sicurezza “è un inganno sociale”, dice il Papa, «dobbiamo intraprendere un cammino urgente per rompere i giri viziosi della violenza e della delinquenza».
Incontra anche il mondo del lavoro, imprenditori e sindacatii: l’invito è a collaborare e a dialogare, sempre. «Tutto quello che possiamo fare per dialogare, per incontrarci, per trovare migliori alternative e opportunità è già una conquista che merita stima e risalto» dice Bergoglio. Parlando delle «diverse organizzazioni di lavoratori e rappresentanti di camere e associazioni imprenditoriali. A prima vista potrebbero essere considerati come antagonisti, ma condividono una stessa responsabilità: cercare di creare opportunità di lavoro dignitoso e veramente utile alla società e soprattutto ai giovani di questa terra».
E poi la condanna dura di ogni sfruttamento: «La mentalità dominante propugna la maggior quantità possibile di profitti, a qualunque costo e in modo immediato», dice, ma «Dio chiederà conto agli schiavisti dei nostri giorni. Il flusso di capitale non può determinare il flusso e la vita delle persone».
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