Qualche giorno fa ho incontrato il direttore Roberto Napoletano per parlare dell’Italia di oggi, dei giovani, del Sud e dei vari sud del mondo e dell’esistenza; ma anche per parlare della Chiesa di Francesco, quell’ “ospedale da campo” che son stato chiamato a servire qui a Roma, come Segretario della Conferenza Episcopale Italiana, dal marzo 2015. Il direttore mi ha proposto una collaborazione con il Sole. Ho tentennato un po’, ma solo a causa dei numerosi impegni legati al mio servizio di prete-vescovo e, come tale poi, ho deciso di scrivere queste mie “testimonianze dai confini”.
Il mio è un servizio che mi costringe oggi a dividermi fra la dimensione pubblica, rifiutata per tanti anni nella terra da cui provengo, la Puglia, Cerignola, e il raccoglimento privato, necessario per comprendere, per quanto possibile, qual è la via più giusta da seguire: il Vangelo e quello che giorno per giorno ci propone Papa Francesco con i suoi gesti e le sue parole.
La Chiesa che Francesco serve come Papa è la Chiesa chiamata a farsi strumento di Misericordia, la stessa che ho cercato di raccontare in un mio intervento qui, sul Sole 24 Ore, l’8 dicembre da un piccolo villaggio del Kurdistan iracheno, dove ero giunto per incontrare i profughi e per aprire una Porta Santa. È la Chiesa della Misericordia che sta assumendo, con fatica, nei gesti e nelle parole del Papa e di tanti cristiani coraggiosi, i tratti di una rivoluzione morale, politica, sociale e intellettuale: abbiamo visto e sentito tutti con quanto coraggio nei giorni passati ha parlato di Vangelo in Messico Francesco, durante l’ultimo suo viaggio!
La chiave per interpretare il suo messaggio sta in una parola: “riforma”, dentro e fuori! Una parola, ma soprattutto un esercizio antico e sempre nuovo, ma soprattutto un esercizio troppo faticoso per uomini e donne che tendono a ridurre il Vangelo e la Religione a ideologia, facendo perdere loro bellezza, freschezza e forza rivoluzionaria; esercizio troppo faticoso per quanti pensano di preservare il Vangelo e la Religione rifiutando il dialogo ed il confronto.
Mi piacerebbe dire a costoro che né il dialogo né il confronto, quando sono autentici, appiattiscono il Vangelo sullo spirito del tempo. Il dialogo non è voglia di sintesi a tutti i costi! È capacità di ascolto, voglia di conoscenza, desiderio di scambio, rinunzia alla presunzione, anche a quella ammantata di spiritualismo. Il dialogo è incontro, come quello che ho imparato a praticare faticosamente nel centro storico della città nella quale ho vissuto come parroco per trentasei anni, Cerignola; e come quello che ho imparato a praticare nelle esperienze di gestione di beni confiscati alla malavita. Il dialogo e il confronto con volti e storie che mi piacerebbe raccontarvi e che di frequente rendono invivibile il nostro territorio.
Questi esercizi mi hanno permesso di entrare nei cuori – non uso spesso questo termine, ma voglio farlo nell'anno della misericordia, dove al centro c’è il termine «cuore» - anche delle donne e degli uomini di Cassano all’Jonio, quando nel 2012 sono diventato il loro vescovo. Il dialogo è lo stile che ricerco pure oggi quando mi trovo ad affrontare tematiche complesse come quelle legate all’immigrazione o ad altre questioni della società civile, ma anche quelle legate a temi culturali. A proposito di questi ultimi, ricordo per primo a me stesso le belle parole contenute in Fides et ratio di Giovanni Paolo II, quando affermò che il dialogo tra scienza e fede è la parte dell'azione evangelizzatrice che favorisce la pace. Il dialogo autentico sa entrare in punta di piedi, non è invadente, non è prepotente, non sconfina, proprio come ha ricordato ieri il Santo Padre.
Vorrei provare a ripercorrere con i lettori i “confini” che ci circondano e nei quali noi stessi siamo collocati. “Confini” da percorrere e da raccontare sono quelli geografici di una Chiesa missionaria che va per il mondo, che incontra e guarda negli occhi, che ricorda sempre che «non tutto è perduto», che vuole osservare l’oltre. “Confini” sono anche gli atteggiamenti e le parole di coloro che pur di non accogliere trasformano il Mediterraneo in luogo per lamenti tragici da dare in pasto a famelici opinionisti. “Confini” sono quelli delle esistenze periferiche di cui parla il Santo Padre: uomini e donne abituati a riempire i contorni della società dello scarto. “Confini” esistenziali sono quelli che ci fanno sentire incompleti e bisognosi degli altri.
Che dire... è proprio complessa l’Italia di cui abbiamo parlato con il direttore nel mio ufficio! Come sono lontane le figure di De Gasperi e di Di Vittorio! Tuttavia la mia formazione non è mai stata quella dei piagnistei, né può venir meno la fiducia con cui guardare a queste azioni di governo che intendono dare un impulso positivo. Ma occorre dare anche una buona ripulita “morale” nel nostro mondo e nel mondo della politica, affinché i giovani possano tornare ad amare il bene comune, senza percepirlo come la compagnia dei furbastri.
In questi appuntamenti sul Sole mi piacerebbe anche gettare uno sguardo sul mondo della cultura, com’ è nella prestigiosa tradizione di questo giornale, che si è proposto un Manifesto della Cultura che funga da monito per i ministeri interessati e che sia soprattutto uno stimolo per gli investimenti nella Ricerca, una frase che è ormai uno sterile tormentone inascoltato.
Un’ultima considerazione: prima di scrivere quest’articolo ero dalle parti del Vaticano e pensavo che non esiste la Misericordia 2.0, somministrata da noi sacerdoti senza sporcarci le mani, né esiste un giornalista che non consumi le sue suole incontrando la gente. Riprendendo un’immagine filosofica della mia precedente vita di professore, scrivo che mi spiacerebbe se per i lettori, io mi riducessi ad essere un eikon, un’immagine; spero piuttosto che nel racconto si realizzi l’incontro e che pian piano anch’io possa ascoltare loro.
Segretario della Cei
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