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Un’Italia sorniona piange l’eroe (ma non lo imita)

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Un’Italia sorniona piange l’eroe (ma non lo imita)

Ad alcuni sarà piaciuta, ad altri meno, qualcuno avrà provato sorpresa e sgomento. Ma un fatto è certo: la fiction “Io non mi arrendo” – la storia di Roberto Mancini, il poliziotto che scoprì l’ecocatastrofe della Terra dei fuochi – ha chiarito a 7 milioni e mezzo di italiani che simili disastri criminosi non avvengono per caso né all’improvviso; che provarli è faticoso e non scevro di ostacoli; che, oltre alle armi, ai boss servono occhi che non vedono e bocche che non parlano. Che, infine, l’impegno personale deve ancora oggi spingersi fino all’eroismo per non venire vanificato dalle potenti spinte contrarie. Il film di Rai1, dunque, ha il merito di sollevare il tema della responsabilità, raccontando quella fetta di Casertano martoriata da rifiuti tossici e roghi alla diossina, in parallelo con la storia del poliziotto, morto per i veleni inalati e oggi medaglia d’oro alla memoria.

Milioni di italiani, dunque, ora sanno che la Terra dei fuochi è la risultante del connubio tra gli appetiti camorristi e imprenditori senza scrupoli, controllori “a disposizione” in cambio di denaro, cinici arrampicatori della politica, professionisti affermati che con le loro firme e le loro facce rendono plausibili transazioni sporche. Senza tutti questi ingredienti, non sarebbero state possibili le grandi parabole criminali che crescono per decenni e poi finiscono nei faldoni di imbelli commissioni parlamentari. Per impedire questa eterogenesi dei fini (quando di eterogenesi si tratta) non bastano le manette: occorre che ciascun segmento sociale si decida a rilevare i rischi potenziali e si impegni a rendere impraticabili, a prevenire con rigore le violazioni deontologiche, i doppi registri, le virtù di facciata.

Vedendo l’impegno e l’umanità di Roberto Mancini, ci si chiede quanti siano i poliziotti, i funzionari, gli amministratori disposti alla stessa abnegazione. Sicuramente sono tanti, anche se lo sceneggiato fa ben comprendere quale sovrumana tenacia sia richiesta a questi servitori dello Stato. Ed è provato che il bubbone venefico della Terra dei fuochi sia il frutto dello stesso humus in cui si sono radicati i “locali” della ‘ndrangheta in Lombardia, in cui allignano racket e usura, gli appalti dirottati, il lavoro nero nei campi e nei cantieri, il traffico dei migranti. Tutti ambiti in cui le bande criminali poco potrebbero senza l’ignavia e il calcolo di migliaia di persone “normali”, apparentemente immerse nei rispettivi (e rispettabili) ruoli, ma intanto portatrici di una subcultura avvezza alla clientela, al favoritismo dalle ricompense non dovute.

Una riflessione merita, infine, il ruolo dell’informazione e dell’intrattenimento nella crescita della consapevolezza in un Paese che pur piagato da mafie, corruzione e malaffare, non pare svegliarsi. Dieci anni fa, aprile 2006, veniva pubblicato “Gomorra”, il libro di uno sconosciuto Roberto Saviano, poi venduto in oltre 2 milioni di copie in Italia e 10 milioni nel mondo, che ha il merito storico di aver puntato i riflettori sul mefitico regno dei Casalesi, intrattenendo con una buona scrittura. Dopo dieci anni, Saviano, ora notissimo e 36enne, è costretto a dividersi tra una vita in Italia protetta dai carabinieri e un’altra, anonima, oltreoceano. Ciò che capita a Saviano, come ai giornalisti e ai testimoni di giustizia, le polemiche feroci e insinuanti che a ondate lo investono, è un fenomeno che si comprende appieno solo mettendolo in relazione con gli esiti della sua denuncia. Perché mescolato alle ovvie gelosie dell’ambiente letterario per il seguito dello scrittore e la diffidenza dei politici per il suo peso, c’è il lavorìo mai interrotto di boss e accoliti, come dimostrano le assurde proteste per la serie “Gomorra”, proprio come avveniva con l’antesignana “Piovra”. I media, la letteratura, l’arte, gli intellettuali sono essenziali per far uscire le realtà criminali dal chiuso dei verbali e della saggistica per ricercatori.

Ed è quanto mai ipocrita commuoversi per gli eroi civili come Roberto Mancini, il sindaco Vassallo, Giorgio Ambrosoli o il giudice Falcone, senza riconoscerne il valore quando sono persone impegnate, competenti, generose e anche ben vive.

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