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Se l’Europa delle regole dimentica la crescita

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riforme e investimenti

Se l’Europa delle regole dimentica la crescita

Urgono interventi forti per rilanciare una crescita globale che rimane “elusiva”. Malgrado la qualificazione garbata, il messaggio è netto così come perentoria è la richiesta di intervento che presumiamo sia rivolta ai governi del G-7 e del G-20 e ai loro ministri delle Finanze che con i banchieri centrali si riuniranno tra pochi giorni a Shanghai. Queste sono le tonalità del recente rapporto dell’Ocse, un’istituzione molto qualificata che di norma usa un linguaggio più diplomatico. La rinuncia allo stesso indica la criticità attuale dell’economia mondiale sulla quale riflettiamo liberamente traendo spunti dal citato rapporto.

Il rallentamento mondiale. La preoccupazione viene sia da una crescita 2016 pari al 2015 ovvero la peggiore da 5 anni ma soprattutto dalla concomitanza di fattori negativi. Quelli di economia reale che indicano una pre-stagnazione con il forte rallentamento delle economie emergenti e la debole crescita di quelle avanzate, i prezzi delle materie prime in calo prolungato, il rallentamento degli investimenti e del commercio internazionale, la debole dinamica dei salari e dell’occupazione, una sostanziale staticità dei prezzi in vari Paesi sviluppati. Quelli di economia finanziaria che indicano turbolenze con forte caduta dei prezzi nei mercati azionari e alta volatilità che sconta già il rallentamento globale, il peggioramento delle posizione debitoria in valuta di Paesi emergenti, la precarietà di molti sistemi bancari, l’instabilità dei prezzi nei titoli di Stato.

Per contrastare questi squilibri strutturali l’Ocse chiede che si prenda atto come la politica monetaria ultra-espansiva non basta e che alla stessa va affiancata una politica fiscale, una spesa pubblica per investimenti e per infrastrutture, riforme strutturali nei singoli Paesi. Così noi interpretiamo la panoramica Ocse sul mondo che, come sappiamo, è privo di un “governo o di un coordinamento tra governi” salvo quello di fatto detenuto dai governatori delle banche centrali che non hanno titoli e poteri per essere onnipotenti.

Le critiche all’Europa. Quando si passa a valutazioni su singole aree economiche, colpisce la critica netta all’Europa. Ne siamo ad un tempo preoccupati, perché l’Ocse non è certo euroscettica, ma anche confortati perché si tratta di critiche costruttive come quelle (ci si scusi il parallelo) che noi spesso abbiamo fatto al “governo economico europeo”.

La critica all’Eurozona è forte in quanto si ritiene che la sua lenta ripresa sia un condizionamento rilevante alla ripresa globale. È una posizione opposta a quella di pochi giorni prima della Commissione europea per la quale la ripresa europea è messa a rischio da quella globale! Non siamo convinti di queste spiegazioni a scala internazionale e globale perché, malgrado la potenza dei modelli, gli errori sono frequenti.

Ci basta invece rilevare che il divario di quasi un punto percentuale nella crescita della Eurozona rispetto agli Usa nel 2015 (1,5% su 2,4%) è troppo e che l’avvicinamento nel 2016 risulta purtroppo al ribasso (1,4% Uem e 2% Usa). Un’Eurozona che cresce meno del 2% preoccupa persino più dei divari tra i tre grandi Paesi che si stanno tra l’altro avvicinando con una previsione sul 2016 di crescita per l’Italia all’1% a fronte della Uem all’1,4%, della Germania all’1,3%,della Francia all’1,2%.

Le previsioni sul 2017 danno un ulteriore avvicinamento dell’Italia (1,4%) a Francia (1,5%) e Germania (1,7%) in questa partita dei decimali che non ci conforta. Anche se l’Italia supererebbe la sua media annua di crescita dell’1% dal 2001-2006 (e ovviamente quella negativa dal 2007 al 2014) che furono anni molto più facili.

Le proposte all'Europa. Il giudizio dell’Ocse sull’Eurozona è chiaro: la politica monetaria ultraespansiva, i tassi di interesse ai minimi storici (e, aggiungiamo, l’esperimento acrobatico dei tassi negativi), i prezzi del petrolio crollati, il cambio favorevole dell’euro non hanno innescato un crescita degli investimenti e dell’occupazione adeguate. Perciò la Uem continua ad essere a rischio.

L’elenco Ocse delle cause di questa situazione e delle proposte per superarla è dettagliato ma noi lo compattiamo in due.

La prima è che politica economica europea si è troppo basata sull’austerità mentre la spesa pubblica andava e va riallocata verso gli investimenti soprattutto con iniziative comunitarie. Vanno aumentati gli investimenti pubblici “collettivamente” così da spingere la crescita sistemica in un contesto di sostenibilità fiscale. Gli investimenti hanno forti effetti moltiplicativi e quelli infrastrutturali favoriscono l’efficienza sistemica e spingono l’attività d’impresa. Il piano Juncker non sta producendo gli effetti preannunciati e la stessa Bei deve finanziare progetti più rischiosi.

La seconda è che le riforme strutturali nei singoli stati non sono avanzate in modo uniforme e ciò ha frenato l’aumento di produttività e competitività che, aggiungiamo noi, in un contesto di semi-stagnazione interna e internazionale per carenza di domanda avrebbe determinato effetti importanti solo se affiancato alle misure sugli investimenti.

Reagire rilanciando. Investimenti sistemici e riforme strutturali rimangono gli interventi cruciali per crescere e per riaggiustare la composizione e i livelli delle finanze pubbliche.

Per farlo bisogna prima riconoscere che il governo europeo in economia si è spostato troppo sulle regole dando la netta impressione di non essere in grado di contrastare con misure comunitarie forti la stagnazione incombente. Da troppe regole nascono sia le micro-deroghe richieste, spesso a ragione, da singoli Paesi sia l’euroscetticismo. Entrambi andrebbero contrastati dalle Istituzioni europee e dai Governi dei singoli Stati ispirandosi alla dichiarazione Schuman del 1950 e cioè promuovendo “realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”.

I tre grandi Paesi della Uem (Francia, Germania e Italia) dovrebbero farlo anche con iniziative nuove come l’unificazione delle forze armate (vista con favore da vari membri del Governo tedesco) che libererebbe fino a 120 miliardi annui e che troverebbe un consenso ampio tra i popoli europei.

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