Una battaglia vinta sulla legge ma il voto di fiducia al Senato ha segnato una novità politica, l’arrivo di Verdini e di 18 senatori. Numeri non determinanti ma dati a Renzi come fosse il segnale di una “blindatura” al Governo. Che tradisce, però, una debolezza.
Il voto dei 18 senatori del gruppo di Denis Verdini è, dunque, la novità politica della giornata di ieri. È vero che il passaggio della legge sulle unioni civili è una vittoria per il Governo e per il Pd di Renzi – anche se ha dovuto rinunciare alla adozione del figliastro – ma anche dove si vince ci sono prezzi da pagare. E quello di ieri è stato di rendere ancora più visibile la “stampella” dei verdiniani che per la prima volta hanno votato la fiducia al Governo. Finora avevano solo votato singoli provvedimenti, quello di ieri è un passo più avanti. La querelle è aperta: c’è chi dice che è un ingresso in maggioranza e un passo dentro al Pd, chi invece nega questo salto logico politico. La polemica è destinata a crescere nei prossimi giorni soprattutto all’interno del partito, con la minoranza che metterà all’indice un’alleanza di fatto anche se senza i crismi istituzionali.
Quello che è vero è che ormai Verdini e i suoi sono diventati le “mura di cinta” del Governo Renzi. Una blindatura. Nel senso che entrano in campo ogni volta che c’è una minaccia alla tenuta della maggioranza e alle riforme renziane. Sia se il pericolo viene da sinistra che dal centro-destra, i senatori del gruppo Ala agiscono da supporto determinante o da deterrente per evitare strappi. Come era accaduto per la riforma costituzionale votata lo scorso autunno. È chiaro però che con questi numeri e con la sirena di emergenza di Verdini è difficile immaginare che la legislatura duri per altri due anni.
Innanzitutto per gli effetti politici su Renzi a cui certo non fa bene essere rappresentato come un premier che dipende dai voti verdiniani. Uno degli slogan preferiti del leader del Pd è di essere totalmente indifferente ai ricatti ma quella che si va prefigurando con l’ex berlusconiano è comunque una forma di dipendenza. Dunque, in primo luogo la necessità di accorciare i tempi del voto nasce da questa “macchia” sul profilo del premier. In secondo luogo, ma non meno importante, è che dati i numeri e i consistenti cambi di casacca, il Parlamento appare – nella sostanza – sempre più delegittimato.
Sono un po’ meno di 80 i parlamentari che hanno traslocato dall’opposizione verso la maggioranza, una gran parte del mondo berlusconiano oggi sostiene il Governo ma senza che vi sia stato alcun passaggio politico-parlamentare di chiarezza. Inoltre se la nuova legge elettorale avrà il marchio di legittimità dalla Consulta e se la riforma costituzionale passerà il referendum, è chiaro che la delegittimazione del Parlamento sarà ancora più marcata. Perché lo sarà nella forma e non solo nella sostanza per tutti i trasformismi avvenuti in questi anni.
Quella di ieri insomma è stata una battaglia vinta per il Governo ma allo stesso tempo ha mostrato un’ombra sulla tenuta della maggioranza che potrebbe allargarsi. Fino a rendere inopportuna politicamente la scadenza naturale della legislatura nel 2018. E spingere per un’accelerazione all’anno prossimo.
I fedelissimi del premier si difendono dicendo che le elezioni del 2013 furono perse dal Pd e dunque oggi tocca fare i conti con i numeri risicati ma alla lunga questo esercizio di virtù potrebbe portare più costi che benefici politici a Renzi. Anche perché l’aiuto politico di Verdini non è ancora chiaro in cosa si tradurrà. In quale trattativa e su quale tavolo.
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