Commenti

Il cambio di passo che serve al fisco

  • Abbonati
  • Accedi
tasse e contribuenti

Il cambio di passo che serve al fisco

Per il fisco, domani, sarà un giorno speciale. L’agenzia delle Entrate presenterà i risultati dell’attività svolta nel 2015 e illustrerà le strategie per l’anno in corso. In più occasioni, sia il premier Matteo Renzi sia il direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, hanno anticipato i risultati sul fronte della lotta all’evasione. Renzi, qualche settimana fa, ha persino affidato a un tweet la celebrazione di questo successo: «Il 2015 anno record nel recupero di evasione fiscale (quasi 15 miliardi). Un abbraccio a chi ci definiva “filo-evasori!”».

Ma, al di là dei dati che verranno forniti domani, qual è il bilancio complessivo del fisco nel 2015?

La delega. Molte cose sono state fatte e molte dovranno trovare un assetto definitivo. Ma, insomma, pur all’interno di un intervento parziale, frammentato, che non ha intaccato la struttura dei prelievi (come era l’impianto della delega fiscale) sono arrivate misure utili e da tempo attese. Il nuovo ravvedimento, gli interpelli, la cooperative compliance. E poi ancora: le altre misure del decreto internazionalizzazione o quelle per la certezza del diritto rappresentano un passo verso un fisco più attento alle esigenze delle imprese. Sono misure che porteranno giovamento al sistema, a patto che si sappia rapidamente completarne i contorni attuativi e interpretativi. Perché, e lo sappiamo bene, il diavolo sta spesso nei dettagli. E i dettagli possono trasformare misure sicuramente utili in scatole vuote o parzialmente vuote.

Le incompiute. È un rischio su molti fronti. Si pensi, al di fuori della delega, al patent box. Tra gli obiettivi c’è quello di favorire il rientro in Italia degli intangibles collocati in Paesi che già in passato riconoscevano i vantaggi fiscali sui redditi derivanti dall’utilizzo di marchi e brevetti. Il punto è che se tra leggi, commi, decreti attuativi e circolari si finisce per limitare (o impedire) le possibilità di far rientrare queste attività, allora si getta a mare una grande e sacrosanta opportunità. E si vanifica, parzialmente, l’utilità del nuovo sistema.

O ancora: se la formulazione della norma che prevede il credito di imposta per ricerca e sviluppo – sappiamo quanto apprezzato dalle imprese – stabilisce che il beneficio funzioni solo su base incrementale (cioè sulla quota aggiuntiva di investimenti), allora si finisce per escludere dal “premio” chi gli investimenti in innovazione già li fa con regolarità. Piccoli (si fa per dire) dettagli destinati a spostare decisamente il giudizio degli operatori. E a compromettere il raggiungimento degli obiettivi delle norme.

Grandi e piccoli. Secondo una critica diffusa, gran parte delle novità 2015 è rivolta alle imprese di dimensioni medio-grandi, quasi scordando quel reticolo multiforme di piccole attività, che caratterizza il nostro tessuto economico-produttivo. In effetti, per questi soggetti è sì arrivata la revisione del regime a forfait, ma sono rimaste senza esito promesse come l’introduzione dell’Iri, l’imposta sul reddito dell’imprenditore. Non ha trovato soluzione la vecchia vicenda dell’autonoma organizzazione ai fini Irap. Il pacchetto semplificazioni non ha portato gli alleggerimenti attesi e non è un caso che ministero e categorie siano tornate a occuparsene proprio in queste settimane.

Per tutti, grandi e piccoli, è arrivata la manutenzione del sistema sanzionatorio, che cerca di rendere un po’ più coerente l’applicazione della sanzione – amministrativa o penale che sia – con la gravità della violazione contestata. Non altrettanto positivo è il giudizio sul contenzioso tributario: un’occasione sprecata. Cosa di cui è consapevole persino il viceministro Luigi Casero, che pochi giorni fa ha promesso una nuova riforma del processo tributario.

Il fisco instabile. Naturalmente, uno dei problemi più sentiti dagli operatori è quello dell’instabilità normativa. Si pensi, per esempio, alla disciplina dei costi black list, modificata due volte nel giro di pochi mesi, prima dal decreto crescita e poi dalla legge di Stabilità. E con risultati del tutto diversi, seppur favorevoli alle imprese. Norme che vengono scritte, interpretate e capite e che già non esistono più. Ma non si poteva decidere due mesi prima di abolire (giustamente) la disciplina sui costi black list?

Il fisco reale. Si può sempre fare di più e fare meglio, ma quest’anno la bilancia sembra pendere dalla parte dei contribuenti, con le “consuete” novità della manovra di fine anno. Il bonus sull’acquisto di beni strumentali, con l’incremento della quota di ammortamento, è una realtà positiva con cui molti si stanno misurando. Altre possibilità, si pensi all’assegnazione agevolata dei beni ai soci, vengono incontro a richieste che gli operatori e i professionisti attendevano
da molti anni.

In più c’è l’impegno, già messo nero su bianco, di tagliare l’aliquota Ires di 4 punti: meglio sarebbe stato non rinviare al prossimo anno, ma almeno la “prenotazione” c’è. La scelta di dare la priorità al taglio di altre tasse non appare convincente. Si era avuta l’impressione – già con l’operazione “80 euro” di due anni fa, idealmente una riduzione di tasse anche se non contabilmente – che il governo volesse puntare alla riduzione del carico fiscale su lavoro e imprese (si vedano lo sgravio sulle assunzioni, prorogato quest’anno in misura più leggera e breve e anche il taglio dell’Irap sulla componente lavoro). Questo percorso ora rallenta: il che è un peccato, anche perché fa calare qualche ombra sulla reale strategia del governo nel suo impegno per il taglio della pressione con la finalità di incidere positivamente sul cuneo fiscal-contributivo.

Il fisco percepito. Ci sono due aspetti. Il primo ha a che fare con la pressione fiscale. Evidentemente, partiamo da livelli di tassazione così elevati che non sono certo i tagli sinora arrivati e/o promessi a modificare la percezione che tutti hanno di essere letteralmente “tartassati” dal fisco. D’altra parte, ci deve pur essere del vero, visto che le ricerche internazionali continuano a segnalare un record tutto italiano non solo nella pressione fiscale in relazione al Pil quanto anche nel tax rate da incubo – oltre il 68% - cui sono mediamente sottoposte le nostre Pmi.

E poi c’è il rapporto tra amministrazione e contribuenti. Si tratta di un aspetto non secondario perché spesso la percezione del “sistema fisco” non riguarda tanto le grandi strategie quanto la qualità dei rapporti con gli uffici.

L’agenzia delle Entrate, è giusto ribadirlo, sta cercando di fare molto in questa direzione. Sta cercando di evitare scontri e contrapposizioni con i contribuenti, sta cercando di favorire il dialogo, nella convinzione che la compliance possa dare risultati migliori dei vecchi e contestati blitz. Sta facendo tutto questo, dovendo per di più superare i problemi creati alla struttura dalla sentenza della Corte costituzionale che ha pesantemente svuotato le posizioni apicali.

Ma, evidentemente, quando le direttive emanate dal centro arrivano alle “periferie” le dinamiche cambiano. È come se a valle il “cambio di passo” su cui punta l’agenzia non fosse arrivato.

Così, pur senza generalizzare, gli uffici tendono a restare ancorati a una visione rigida del proprio ruolo, poco propensa al confronto, più legata agli obiettivi del gettito (la cui esistenza è sempre negata dall’agenzia) che non alla disponibilità ad ascoltare le ragioni dei contribuenti. Resta, per esempio, una certa cocciutaggine nell’abbandonare il contenzioso anche nei casi in cui l’esito finale appare segnato a favore del contribuente, il che non aiuta a rasserenare gli animi. Non c’è commercialista e non c’è impresa che non riferiscano questo disagio, questo malessere.

Come sempre i dati vanno presi con cautela, ma la crescita del contenzioso tributario registrata solo pochi giorni fa (nonostante il forte impegno sugli istituti deflattivi) diventa forse la cartina di tornasole di questo clima. Se diminuisce la propensione a chiudere le liti con il fisco prima del contenzioso vero e proprio, vuole anche dire che probabilmente aumenta la sfiducia sulla qualità degli accertamenti.

© Riproduzione riservata