Quattro economisti democratici – Alan Krueger, Austan Goolsbee, Christina Romer e Laura Tyson, tutti ex presidenti del Council of Economic Adviser di Obama o di Clinton – hanno scritto una lettera molto critica al senatore Bernie Sanders e al suo consulente economico, Gerald Friedman, ottenendo il sostegno di tanti economisti e, fra gli altri, di Paul Krugman.
La critica è quella di attribuire effetti quasi miracolistici ad un grandioso piano di aumento della spesa pubblica. Come ha ben spiegato Justin Wolfers dell’Università del Michigan sul «New York Times» del 26 febbraio il problema non riguarda né i dettagli del piano né la qualità delle stime econometriche o i valori dei moltiplicatori, ma la logica alla base dell’intero ragionamento di Friedman e Sanders. Per questo la discussione americana è rilevante anche per il dibattito europeo su austerità e crescita.
L’idea del piano Sanders è quella di aumentare la spesa pubblica in misura tale da generare un forte aumento del Pil, oltre il 30% rispetto allo scenario base, nell’arco di una decina di anni. Inizialmente il deficit federale peggiorerebbe, ma nel giro di un paio d’anni migliorerebbe, e di molto, per l’effetto di maggiori tasse sui ricchi e della maggior crescita economica sul gettito fiscale.
Il fondamentale problema logico di questo ragionamento sta nel non vedere che un aumento temporaneo del disavanzo di bilancio non può che avere effetti temporanei sul livello dell’attività economica.
All’inizio della manovra, quando si aumentano la spesa e il disavanzo, il Pil aumenta. Successivamente però, quando il disavanzo diminuisce e addirittura si trasforma in surplus, lo stimolo viene meno e, a parità di altre condizioni, il Pil torna al punto di partenza. Ed è sostanzialmente irrilevante se la causa del miglioramento del bilancio è un aumento, endogeno o esogeno, delle tasse, oppure un piano di rientro della spesa.
Né è particolarmente rilevante il valore del moltiplicatore, purché esso non sia troppo diverso nelle fasi di espansione e in quelle di restrizione del bilancio. Peraltro non è pensabile - né lo pensa Sanders - che il deficit possa essere aumentato in permanenza perché in tal caso ad un aumento una tantum del Pil corrisponderebbe un aumento continuo e senza limiti del debito pubblico.
Secondo il resoconto di Justin Wolfers, Friedman avrebbe ammesso che la sua non è macroeconomia standard, ma avrebbe sostenuto che si tratta di una versione alla Joan Robinson del pensiero keynesiano, in cui in sostanza la spesa pubblica, ancorché temporanea, può avere effetti permanenti non solo sul livello ma addirittura sul tasso di crescita del Pil.
In effetti, non mancano esempi in cui qualcosa del genere può accadere. Ad esempio, l’intervento dello Stato per far fronte ai danni di una catastrofe naturale può fare una enorme differenza sul tasso di crescita potenziale di una determinata comunità. Lo stesso può valere per alcuni investimenti critici volti a rimuovere colli di bottiglia, ad esempio nei trasporti, che bloccano lo sviluppo di una determinata area.
In un lavoro molto citato del 2012, Larry Summers e Bradford De Long argomentano che vi possono essere effetti permanenti della spesa pubblica sul Pil potenziale, ma spiegano anche che il conseguente maggior gettito fiscale consente al più allo Stato di fare un piano di rientro in cui, in un contesto di politiche monetarie molto accomodanti, gli interessi si autofinanziano con la crescita.
Anche quindi con le ipotesi più ottimistiche di Summers e De Long rimane che se oggi si spendono 100 dollari in più, prima o poi si dovranno spendere 100 dollari in meno. In altre parole, con il disavanzo si può spostare nel tempo l’andamento del ciclo o attenuare la severità di una recessione, ma non si può generare crescita stabile.
Alcuni in Europa sembrano pensare che questa affermazione sia figlia dell’ideologia ordoliberista tedesca. Per i quattro illustri firmatari della lettera a Sanders invece si tratta di una verità assolutamente evidente, al punto che la sua apparente negazione da parte del candidato alla presidenza li induce a preoccuparsi per la stessa reputazione e credibilità del Partito Democratico.
Essi ricordano le critiche avanzate dai democratici, sulla base dell’evidenza economica, alle tesi dei Repubblicani sugli effetti miracolistici di riduzioni delle tasse sui ricchi. Lo stesso rigore deve allora essere applicato alle proposte dei democratici, pena la perdita di credibilità dell’agenda economica dei progressisti e la sostanziale impossibilità di dimostrare l’infondatezza degli “irrealistici proclami” dei candidati repubblicani.
Dagli Stati Uniti arriva una lezione di serietà che ci è difficile
non invidiare.
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