Competitività e innovazione. L’Italia è un corpo malato. Che sta poco alla volta provando a riprendersi. La Puglia è una giuntura con una sua consistenza, che mantiene il Mezzogiorno agganciato al resto dell’organismo italiano. Di fatto, prova a impedire che il Sud sprofondi. La Puglia è un tessuto produttivo non privo di coesione, che contribuisce alla conservazione dei legami del Paese nel suo insieme con i mercati globali e con i circuiti internazionali dell’innovazione.
Qui naturalmente non sono cancellate le questioni meridionali, che rappresentano l’amplificazione delle questioni nazionali: dalla elefantiasi della pubblica amministrazione alla scarsità degli investimenti nella logistica, dalle reti stradali in alcune parti sbrindellate alla esasperante lentezza della giustizia civile. Questo sistema di sviluppo locale, che è il risultato della giustapposizione di tante specializzazioni diverse, ha però una caratteristica: la Puglia non è un deserto irrorato solo dalla spesa pubblica. La spesa pubblica, come in tutto il Paese e soprattutto nel Mezzogiorno, conserva proporzioni ingenti e resta uno degli elementi basilari del suo quadro economico, politico e sociale. È innegabile. Ma qui c’è un sistema produttivo – complesso e stratificato, variegato nella sua miscela di obsolescenza e innovazione, puntiforme nei suoi elementi di maggiore connessione al capitalismo globale – che nel suo complesso offre stabilità e proiezione verso il futuro.
Fra competitività e innovazione, aneliti di nuovi business e desideri di conservazione e di sviluppo dell’economia tradizionale, la funzione che la Puglia ha – fra competitività e innovazione - negli equilibri nazionali è spiegata in maniera illuminante dalle elaborazioni che Il Sole 24 Ore ha chiesto alla Svimez. In particolare, a dire molto sulle tendenze di lungo periodo, sono tre indicatori diversi pesati rispetto al resto del Sud e rispetto al Paese nel suo insieme: il Pil, che con la sua brutalità sintetica permette di comprendere il ruolo di questa regione nella fisiologia nazionale, le esportazioni (in grado di fornire più di una intuizione rispetto alla mobilità o all’inerzia di un sistema regionale) e la ricerca e l’innovazione, che fanno non poco presagire sulla capacità di un tessuto produttivo di impollinare, alimentare e sviluppare pezzi di futuro. Il che appare di estremo interesse, considerando il lasso di tempo che va dal 1995 – quando c’era ancora la lira, per quanto senza le svalutazioni competitive – a oggi: vent’anni in cui si sono verificati il changeover lira-euro, la ristrutturazione selettiva delle imprese italiane (per Banca d’Italia, fra il 2002-2006) e la recessione internazionale che, dal 2008, ha eroso un quinto della capacità produttiva del nostro capitalismo manifatturiero. Secondo la Svimez, che ha lavorato sul Pil a prezzi di mercato (a valori concatenati e con base 2010), la Puglia vale poco meno di un quinto dell’economia del Sud. Si tratta di una regolarità storica: nel 1995 il Pil pugliese era il 18,64% di quello espresso dal Mezzogiorno, nel 2000 questa quota è salita al 18,96% per poi attestarsi nel 2005 al 18,5%, nel 2010 al 18,54% e nel 2014 al 18,99 per cento. Il Pil regionale ha contribuito a quello nazionale, negli stessi anni, rispettivamente per il 4,6%, per il 4,4%, per il 4,31% e per il 4,34 per cento. L’Italia è impegnata in una complessa transizione. Il Sud ha il problema di non morire. La Puglia è in mezzo. Fa meglio del Sud, fungendo – fra competitività e innovazione - quasi da scialuppa. Segue il ritmo italiano, che non è né sonnolento né impercettibile: è il ritmo di un corpo reso obeso dalla spesa pubblica improduttiva e mutilato – negli ultimi vent’anni – dalla scomparsa di un organo importante come la grande impresa che – nelle sue forme pubbliche e private – aveva segnato l’industrializzazione del Novecento. Appare invece interessante e contraddittoria la dinamica dei pesi relativi dell’export.
La Puglia, grazie alla sua vocazione commerciale e alla sua abilità storica in alcuni segmenti della manifattura, è sempre stata – dagli anni Sessanta in avanti - una protagonista tutt’altro che irrilevante sui mercati stranieri. Con la globalizzazione, che dai primi anni Novanta ha impresso una decisa accelerazione agli scambi internazionali e ha modificato la struttura della manifattura internazionale attraverso il paradigma della Bazaar Economy formalizzato per la prima volta da Hans-Werner Sinn nel 2006, le cose cambiano. E non in meglio. Il peso dell’export pugliese, a valori correnti, cala sia sul totale italiano sia sul totale del Mezzogiorno. Nel 1995 l’export regionale era il 25,13% di quello meridionale e il 2,33% di quello italiano. Nel giro di pochi anni, queste quote subiscono flessioni assai rilevanti: nel 2000, sono scese rispettivamente al 20,76% e al 2,29 per cento. Nel 2008, l’anno dell’avvio della recessione internazionale, eccole al 17,15% e al 2,05 per cento. All’apice della crisi, la Puglia conserva un ritmo nelle esportazioni che la mantiene agganciata al treno nazionale e riassegna ad essa una funzione di traino di un Sud che sta vivendo una condizione greca: nel 2014, le esportazioni pugliese sono il 2,06% di quelle nazionali (in linea con gli anni precedenti) e il 19,97% di quelle meridionali (quasi tre punti in più rispetto al primo anno di crisi internazionale). Il doppio dato strutturale, però, è quello di più lungo periodo: in vent’anni il peso delle esportazioni pugliesi su quelle del Mezzogiorno è sceso da un quarto a un quinto, mentre la limatura di 27 centesimi di punti sul totale nazionale non è poca cosa. Esiste, dunque, un tema al contempo di apprezzamento, ma anche di minore competitività relativa sulla scala globale: nel sempre più grande fiume di merci e di componenti, di elementi e di micro-specializzazioni italiane che va ad alimentare i network della produzione globale (e che ha consentito al Paese di non implodere su se stesso negli ultimi venti anni), la corrente pugliese esiste, ha una sua dimensione, che tende però come valore relativo a diminuire. Non a caso, a valori correnti, le esportazioni pugliesi hanno registrato, dal 1995 a oggi, un aumento cumulato del 76%, a fronte di un incremento di quelle nazionali pari al 99 per cento.
A fronte della complessità interpretativa dell’export, appare più nitida – e non scevra di ottimismo per il futuro – la lettura dei dati sull’innovazione elaborati dalla Svimez. L’ottimismo – come spesso capita nel nostro Paese – riguarda più il sistema imprenditoriale privato che non il sistema pubblico. Usando l’indicatore del personale addetto alla R&S nella pubblica amministrazione, la quota pugliese – rispetto al totale italiano – era il 3,15% nel 2002 e, adesso, è salita al 3,36 per cento e – rispetto al Sud – era il 19,39% quattordici anni fa e, ora, è scesa al 15,53 per cento. È invece unidirezionale la dinamica del personale addetto alla R&S nelle imprese private: si è passati dal 14% del totale meridionale e dall’1,37% del totale nazionale del 2002 al 19,78% e all’1,83 per cento.
Lo scenario microeconomico – inserito in una tendenza storica di medio e lungo periodo – appare dunque confermare la natura della Puglia di punta più avanzata del Sud, assegnare ad essa – in quanto insieme dialetticamente integrato di sistemi di sviluppo locali – il ruolo di avamposto sui mercati internazionalizzati (anche se su parti non nobili delle catene globali del valore) e prospettare – nelle scelte delle imprese – una crescita strategica in grado di unire all’innovazione informale – fra tradizione e modernità - il lievito della Ricerca e Sviluppo più formalizzata. Tutto questo non è assolutamente poca cosa.
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