Commenti

Il piccolo piano di un’Europa stanca di sé

  • Abbonati
  • Accedi
ue e crisi ddei migranti

Il piccolo piano di un’Europa stanca di sé

Eurottimisti contro europessimisti come i guelfi e i ghibellini: le due fazioni si guardavano in cagnesco, sacerdoti di una religione assoluta, intollerante delle certezze dell’altro. Era l’altro ieri, non un secolo fa.

La dialettica è saltata, perché è sparito uno dei due protagonisti: l’ottimista. L’Europa ormai trascolora in 50 sfumature di grigio, tendenti al nero cupo. E di lì sembra incapace di muoversi, riprendersi in mano, ripartire.

Non bastavano la ripresa stenta, le crescenti incertezze globali, l’ombra di una nuova crisi finanziaria: doveva riaffacciarsi anche la deflazione. Non bastavano Brexit e i nazionalismi dovunque all’assalto, il declino dei partiti tradizionali, le democrazie allo sbando, i governi che vivono alla giornata millantando simulacri di leadership. Non bastavano la lenta implosione di Schengen, il mercato unico che si sgretola, l’unione bancaria a compartimenti stagni, l’euro in balia delle sue fragilità strutturali.

Potrebbe sembrare la congiura delle poli-crisi, del disordine oscurantista e involutivo. In realtà, sembrano tante ma la crisi è una sola: l’Europa e gli europei si sono stancati di se stessi, non colgono più meriti e vantaggi della convivenza. Preferiscono le false sicurezze delle frontiere nazionali, fisiche o mentali, sociali, economiche, politiche poco importa. Basta che l’altro stia fuori.

E l’altro è chiunque abbia una nazionalità diversa da quella dell’orto di casa: cittadino Ue, immigrato, rifugiato non fa differenza. Il valore aggiunto europeo non è più vissuto come un plus, una ricchezza condivisa e da condividere, ma come una sorta di intollerata escrescenza, un costo da eliminare.

E adesso povera Europa?

Salvo miracoli, l’emergenza rifugiati, specchio e paradigma di una crisi esistenziale senza precedenti, le promette la discesa finale agli inferi, alle radici di tutte le contraddizioni maturate in una casa comune dove quasi tutti oggi si sentono estranei per le ragioni più disparate. Dove troppi erigono muri e si tagliano ponti alle spalle. La saga degli egoismi e delle follie anti e proto-storiche sembra inesauribile.

Più del tetto illegale agli ingressi giornalieri di rifugiati, sconcerta la subitanea riesumazione dell’impero austro-ungarico ad opera dell’austriaco Werner Faymann, il cancelliere socialdemocratico che convoca un vertice unilaterale per negoziare a tu per tu con i Balcani (senza Atene né notifica ai partner Ue) e blindare il confine tra Macedonia e Grecia. Come se fosse solo il suo e il loro, quel confine, e non fosse anche un confine greco e europeo. Evocare vecchi incubi per crearne di nuovi? Si direbbe di sì.

Con una popolazione di 8,5 milioni di persone, l’Austria l’anno scorso ha accolto 90mila profughi: troppi, dice. La Grecia ha poco meno di 11 milioni di abitanti ma nel 2015 ha fatto fronte a oltre 900mila sbarchi ( e ad altri 133mila dall’inizio dell'anno). Con 80 milioni di abitanti, la Germania ne ha accasati 1,1 milioni. Forse i nazional-vittimismi dovrebbero esercitarsi di più sulle cifre comparate.

Poi c’è la ricca Danimarca che, per mantenerli, sequestra per legge ai profughi averi superiori a 1.350 euro. La Svezia vara misure sempre più restrittive e programma espulsioni di massa. Dove è finito il civilissimo paradiso scandinavo?

A Est il premier slovacco Robert Fico, socialdemocratico come Faymann e dal luglio prossimo presidente dell’Ue, fa squadra con l’Ungheria di Victor Orban e la Polonia di Jaroslaw Kaczynski, le “bestie nere” dei benpensanti europei, per farsi fortezze anti-inquinamento migratorio.

Niente quote di ripartizione obbligatorie, resistenze diffuse sulla creazione di una guardia di frontiera europea: sovranità nazionale oblige. Ora si spera che lunedì a Bruxelles il vertice Ue con la Turchia riesca a più che dimezzare, sotto le mille unità giornaliere, gli arrivi di profughi in cambio di una loro graduale ammissione e ripartizione in Europa.

Con 2,5 milioni di rifugiati, la Turchia avrebbe il triplice vantaggio di ridurne il numero, incassare 3 miliardi oltre alla liberalizzazione dei visti e la ripresa dei negoziati di adesione all’Ue. Ma l’Europa che, dei 160mila profughi da riallocare in due anni da Italia e Grecia, negli ultimi sei mesi è riuscita a sistemarne 508, sì 508, davvero sarà poi in grado di vincere in casa la sua scommessa turca?

In vista delle elezioni del 13 marzo e della primavera ormai in arrivo, Angela Merkel ha un bisogno disperato di dare al Paese un segnale concreto sul controllo dei flussi: ne va della sua politica, della sua poltrona. Della tenuta di Schengen e del mercato unico. In breve dell’Europa, che non è un bene alienabile nell’era delle sfide globali.

Nella speranza di ricucire divisioni intra-Ue sempre più nette, la Commissione Juncker annuncia un piano di aiuti da 700 milioni in tre anni: meglio di niente ma quasi niente. Per evitare il disastro umanitario alla frontiera con la Macedonia, solo la Grecia chiede 480 milioni subito. Donald Tusk, il presidente del Consiglio Ue, spera intanto di calmare le tensioni sulla rotta balcanica, con un viaggio che si concluderà domani ad Atene e Ankara.

«Non abbiamo salvato la Grecia nell’euro per cacciarla ai margini di Schengen» avverte Merkel. «Non diventeremo un grande magazzino di anime» ribatte Alexis Tsipras minacciando il veto greco su tutte le decisioni Ue. È il corto circuito dell’impotenza individuale e collettiva: scatta quando la disperazione dell’altro incontra indifferenza, il grande consesso europeo di anime spente.

© Riproduzione riservata