L’esito del supermartedì è chiaro: i democratici emergono uniti attorno a una piattaforma politica e alla Clinton; i repubblicani profondamente divisi sul candidato Trump e sui loro valori. Hillary unisce, insomma, mentre Donald polarizza. Colpisce quanto Trump si trovi solo contro tutti. Contro Hillary Clinton, avviata verso la conquista della nomination democratica. Ma anche contro il suo partito ostile, spaccato, orfano di quella coalizione fra conservatori fiscali, sociali e destra religiosa che in altri tempi lo rendeva invincibile.
L’ascesa di Trump in queste primarie repubblicane coincide insomma con una crisi dell’anima più profonda del suo partito. Con due conseguenze, una tattica, l’altra strategica.
Sul piano tattico, c’è ancora molta strada da fare. Il percorso elettorale a breve passerà per una conferma del dato sul Super Tuesday già sabato, con voti in Louisiana, Kansas, Kentucky e Maine, poi in alcuni stati minori come Hawaii e Missisipi fino all’appuntamento centrale del 15 marzo in Florida. Trump è in vantaggio dappertutto, persino in Florida contro Rubio, che pure è Senatore per lo stato.
Questo pone un problema a breve per il partito repubblicano. La leadership teme che in un confronto nazionale fra Hillary e Donald a novembre, non solo Trump perderà male la Casa Bianca, ma trascinerà nella sconfitta molti deputati e senatori repubblicani che si trovano a combattere per seggi molto incerti. Per questo i fratelli Koch, padrini finanziari e libertari del partito, prendono le distanze da Trump: hanno investito il loro patrimonio, e si parla di oltre 900 milioni di dollari, mirando a un obiettivo primario: difendere la maggioranza repubblicana in Senato. La loro scelta ha una ragione precisa: sanno che i seggi repubblicani in palio sono molto più numerosi di quelli democratici. In Senato ci sono maggiori probabilità rispetto ai democratici di perdere quei cinque seggi che potrebbero cambiare la maggioranza. Avendo contribuito non poco al recupero del dominio repubblicano al Senato i Koch non vogliono perderla. Ma sentono di avere contro Trump. I suoi messaggi blandi sul Ku Klux Klan o sul teorico razzista David Duke, il recupero di slogan di Mussolini, le sue aperture centriste su programmi statali come il “Planned Parenthood”, la promessa di riformare ma non di abolire l’Omabacare o l’accordo sul nucleare con l’Iran sono posizioni controverse e contraddittorie per l’establishment repubblicano. Allontaneranno dal voto sia centristi indipendenti che repubblicani Doc non solo nella corsa per la presidenza, ma anche in quella per il Congresso.
Il problema di fondo è che il messaggio populista di Trump poggia più sul culto della sua personalità e delle sue promesse casuali che sul bene del partito. Questo problema non si pone in campo democratico. La piattaforma di Hillary Clinton non è molto diversa di quella di Bernie Sanders a parte alcuni strappi ( sistema sanitario gratuito etc.) su cui insiste questo populista di sinistra del Vermont. Alla fine Hillary avrà l’appoggio completo - e sincero - del suo partito che non richiederà modifiche sostanziali sul piano strategico per consolidare l’unità dell’elettorato.
Per i repubblicani, come abbiamo detto, Trump è la conseguenza di divisioni e polarizzazioni interne pre esistenti: il tea party, il rifiuto a negoziare con la controparte, l’estremismo religioso che valica i tradizionali confini molto rigidi in America fra Stato e Chiesa spaccavano il partito ancora prima dell’arrivo del Donald. È essenziale dunque che sul piano strategico la leadership repubblicana si chieda fino a che punto il malessere dell’elettorato che vota un immobiliarista di lusso, uno showman e un imbonitore prestato alla politica non sia invece lo specchio di trasformazioni interne già avvenute.
Che Trump ha già annusato. Il suo contributo a un partito che lo respinge? Ha allargato la base elettorale, con le sue promesse protezioniste ha mobilitato serbatoi di voti democratici e di frange vicine al sindacato. E negli ultimi comizi si è gia spostato al centro pensando al voto di novembre. Hanno dunque ragione i vecchi soloni repubblicani che lo ostacolano? O lui, questo candidato che ha scardinato convenzioni e tabù di partito toccando chiaramente un nervo esposto dell’opinione pubblica? Molti, analisti politici, governatori, senatori continuano a screditarlo e pronosticano una sua disfatta a novembre. Bill Clinton, da vecchio volpone della politica ha un’opinione diversa: «Guai a sottovalutare chi arriva da dietro e vince da solo: a novembre il risultato sarà strettissimo», ha detto appena due giorni fa.
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