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L’Evo Morales finisce, nuova era per la Bolivia

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dopo l’esito del referendum

L’Evo Morales finisce, nuova era per la Bolivia

Più della metà dei boliviani ha detto “no” nel referendum sulla proposta di modifica della Costituzione che avrebbe consentito a Evo Morales di correre per un quarto mandato presidenziale alla fine del 2019. Ma già da qualche tempo le quotazioni del leader andino erano in ribasso, dopo che per quasi due lustri aveva continuato a brillare. D’altro canto, la sua ascesa politica era stata altrettanto rapida quanto eclatante.

Già a capo del principale sindacato dei coltivatori di coca e fondatore del “Movimiento al socialismo”, che nelle elezioni del luglio 2002 aveva raccolto il 20 per cento dei voti, sembrava comunque destinato a non fare molta più strada avendo proclamato di voler coniugare marxismo e indigenismo in funzione del riscatto della comunità degli “aymaras” che, sebbene costituisse (insieme ad altri gruppi autoctoni) la maggioranza della popolazione locale, era concentrata nelle regioni più depresse del paese. Invece il Mas aveva vinto le elezioni nel dicembre 2005 e Morales quelle presidenziali il mese successivo. Da allora l’ex cocalero di Cochabamba, che passava per una sorta di “Lenin indio”, aveva cominciato col dare battaglia alle grandi compagnie statunitensi, che controllavano le risorse di gas e petrolio boliviano, decretando la nazionalizzazione dei giacimenti e stabilendo, sempre in nome della “volontà popolare”, il raddoppio dei salari minimi e la legalizzazione della produzione della foglia di coca. Tuttavia egli intendeva essere l’alfiere, non già di una rivoluzione di marca socialista e antimperialista, analoga a quella di Fidel Castro e di Hugo Chávez (che pur s’erano schierati immediatamente a suo fianco), bensì di una revanche della gente andina da sempre povera ed emarginata nei confronti della minoranza bianca d’origine ispanica residente nella parte più prospera della Bolivia, nella cosiddetta “mezzaluna”: ossia, nelle pianure agricole e industriali, oltre che nelle principali città come Santa Cruz. Tanto che, per sottolineare la sua totale identificazione con la causa dei nativi, aveva voluto continuare a indossare l’abito tradizionale degli indios.

Di fatto un personaggio come Morales, che all’inizio pareva poco più che un “cacique” folclorico, aveva rivelato nel giro di poco tempo doti politiche insospettabili quanto robuste, tanto da fronteggiare con successo sia il confronto con le multinazionali a stelle e strisce e i principali clienti del gas boliviano (dal Brasile all’Argentina) penalizzati dalla maggiorazione delle royaltes, sia la reazione dei grandi proprietari fondiari, insorti contro il progetto governativo di una radicale riforma agraria che prevedeva la confisca di tutti gli appezzamenti che non adempissero a una “funzione sociale”.

È vero che subì più di un inciampo la nazionalizzazione di altri giacimenti minerari (a cominciare da quelli di stagno), oltre alla distribuzione ai “campesinos” di terre non appartenenti al demanio statale; e che Morales dovette scendere a patti con Lula e Kirchner in ordine al regime contrattuale delle forniture boliviane di idrocarburi. Inoltre il sospetto che Morales puntasse a creare una Bolivia “interamente india” nelle sue linee direttrici e la recisa opposizione politica dei notabili delle province orientali giunsero a minacciare in più d’una circostanza la scissione del Paese. Ma continuò a giocare a favore dell’assestamento di Morales al potere, da una tornata elettorale all’altra, la crescita pressoché ininterrotta dei prezzi delle materie prime (dal gas e dal petrolio a vari minerali) e di alcuni prodotti agricoli parimenti esportati dalla Bolivia, e quindi la possibilità per il governo di realizzare notevoli investimenti per opere pubbliche e di sostenere nel contempo un’adeguata politica di assistenza sociale a favore delle famiglie più bisognose. D’altra parte, le fortune di Morales erano coincise con quelle di un altro leader politico emerso pressoché negli stessi anni in Ecuador, come Rafael Correa, un giovane economista che si definiva “cristiano di sinistra”, ed entrambi avevano stabilito saldi legami con il Venezuela di Chávez, all’insegna della cosiddetta “rivoluzione neo-bolivarista” (consistente in una mistura di social-giustizialismo massimalista, nazional-populismo e caudillismo personale) patrocinata dall’ex colonnello dei parà di Caracas.

Negli ultimi anni la recessione e in particolare il calo vertiginoso dei prezzi del greggio hanno posto fine a una fase di alta congiuntura economica per la Bolivia, come per l’Ecuador e il Venezuela. Di conseguenza sono appassite le credenziali e le prospettive politiche di Morales, dopo l’uscita man mano di scena, in America latina, dei sandinisti, dei post-peronisti e anche dei fautori di un “capitalismo di sinistra” alla Lula. Naturalmente, non per questo gli Stati Uniti, riapprodati a Cuba, torneranno a fare dell’altra parte del continente il loro “cortile di casa”. E rimangono comunque ancora forti le suggestioni della teologia della liberazione e delle comunità di base.

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