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Come fare del piano Juncker una vera leva per la ripresa

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europa e crescita

Come fare del piano Juncker una vera leva per la ripresa

Poiché la Ue e la Uem sono, stando ai dati quantitativi, due potenze economiche mondiali e come tali sono trattate in molte statistiche, sarebbe bene che di ciò ci fosse consapevolezza. Non è invece così perché le Istituzioni europee sono troppo centrate verso l’interno e verso il controllo analitico delle economie dei Paesi membri perdendo di vista i macro-problemi che configurano il ruolo della Ue e della Uem nel mondo. Lo si è constatato, ancora una volta,al G 20 dei ministri delle Finanze e dei Governatori delle banche centrali tenutosi a Shanghai pochi giorni fa nel quale la Ue appare solo per i problemi che crea. Forse la Ue sottovaluta il G 20 malgrado rappresenti il 65% della Popolazione e l’86% del Pil mondiale. Più probabilmente, essendo nel G 20 presenti Germania, Francia, Italia, Regno Unito,le Istituzioni europee passano nell’ombra. Fa eccezione la Bce che tuttavia non è un organo politico. È bene spiegare perché le Istituzioni europee sbagliano.

G 20: più investimenti. A Shanghai si è rilevato che la ripresa globale non è forte, sostenibile e bilanciata. Sono infatti aumentati i rischi per la caduta dei prezzi delle materie prime, la volatilità dei flussi di capitale, le tensioni geopolitiche, i rischi per Brexit e per le immigrazioni. Il G 20 si è quindi concentrato sui temi di economia reale riferiti a investimenti, infrastrutture ed ecocompatibilità (e su altri, di cui non ci interesseremo finanziari e valutari). Non è una novità ma l’enfasi è importante.

Sugli investimenti si enfatizza la loro stretta complementarietà con le riforme strutturali per rilanciare la produttività e la crescita potenziale. Agli investimenti in infrastrutture vengono dedicate prescrizioni centrate sul ruolo delle Banche Multilaterali di sviluppo esistenti e da creare. È una sottolineatura importante.

Perché tramite queste banche e la loro cooperazione vanno attirati fondi privati, creati standard internazionali di progetti e di finanziamento nel partenariato pubblico-privato, favorite le esternalità, la convenienza degli investimenti di lungo periodo. Il tutto viene collegato alle prescrizioni del G-20 del 2015 in Turchia e alle varie iniziative dell’Onu ovvero Agenda 2030, Cop XXI sui cambiamenti climatici e all’Agenda di Addis Ababa sulla finanza per sviluppo del 2015. È un’impostazione multilaterale molto interessante rispetto agli usuali approcci dirigisti-mercatistici.

L’Europa al G-20: quasi assente. Nel comunicato finale del G-20 ci sono solo due riferimenti all’Europa e cioè il rischio di Brexit (pare su pressioni del ministro inglese Osborne) e quello dei malgestiti movimenti migratori. Nessun riferimento invece al piano Juncker e al fatto che per lanciarlo si è costruito un nuovo strumento finanziario lo European Fund for Strategic Investment(Efsi). Né si dice che lo stesso opera sia dentro la più importante Multilateral Development Bank al mondo e cioè la Banca Europea per gli investimenti sia in collaborazione con le National Promotional Banks. È davvero incredibile che la Commissione europea non sia stata in grado (o non abbia provato) a far inserire un focus a questa iniziativa europea “qualificante” di sostegno agli investimenti.

Non meno sorprendenti sono le dichiarazioni prima e dopo il G-20. Pierre Moscovici, il Commissario agli affari economici e monetari che rappresentava la Commissione al G-20, prima del summit ha fatto una dichiarazione generica senza citare il Piano Juncker. Dopo il G-20 il ministro delle Finanze tedesco Schaeuble ha dichiarato di essere preoccupato per le politiche monetarie accomodanti e di non essere d’accordo sugli stimoli proposti dal G 20 perché la crescita dell’economia reale passa solo dalle riforme strutturali. Sulle politiche monetarie acrobatiche Schaeuble non è certo il solo preoccupato, mentre oramai lo è nella sua ostilità verso gli investimenti pubblici infrastrutturali. Quelli che la Germania è stata spesso invitata ad accentuare con i suoi surplus di bilancio.

L’Europa: più innovazione. Ancora una volta la Ue e la Uem vanno richiamate delle loro responsabilità di investitori per lo sviluppo sostenibile. Noi abbiamo già espresso dubbi sulla operatività piena in tempi brevi (tre anni) del Piano Juncker perché lo stesso ipotizza una leva troppo grande. Anche aver incardinato il Fondo Efsi nella Bei ha dei pro (grande esperienza della Bei) e dei contro (rigidità di una struttura già troppo pesante). Perciò abbiamo proposto di fondere il Fondo Efsi nel Fondo Esm che potrebbe emettere più di 300 miliardi di eurobond (acquistabili anche dalla Bce dati i ratings delle attuali emissioni) moltiplicabili a 900 con una piccola leva di 3. Anche indipendentemente da questa fusione, lo European Investment Advisory Hub (Eiah), cioè l’altro braccio operativo del Piano Juncker, dovrebbe subito diventare una Agenzia europea (magari tagliandone qualcuna inutile delle circa 40 esistenti). Lo Eiah dovrà collaborare con la Commissione europea, il Gruppo Bei, le istituzioni Nazionali per la promozione degli investimenti (come le casse depositi e prestiti), altre autorità nazionali sia per fornire assistenza tecnica alla predisposizione di progetti per il Fondo Efsi sia per diffondere professionalità a soggetti pubblici e privati. Il suo ruolo potrebbe diventare fondamentale anche per coordinare i più importanti progetti infrastrutturali europei.

Più coraggio. Anche questo ingrediente è necessario. Così fu nel 1990 con la fondazione della Bers (Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo) per la transizione al mercato nei Paesi dell’Est Europa. Di recente è stata fondata l’Asian infrastructure investment bank per iniziativa cinese. Per questo la Ue e la Uem dovrebbero avere il coraggio di far passare il piano Juncker da iniziativa incapsulata dentro la Bei ad una autonoma che nel medio termine potrebbe anche contribuire alla realizzazione di infrastrutture nei Paesi Africani, specie rivieraschi. Si valorizzerebbe così l’azione dell’Europa, che è già il primo donatore al mondo ai Pvs (sommando i contributi comunitari a quelli degli stati) e che con gli investimenti potrebbe anche contenere le immigrazioni. Sono scelte su cui la Ue e la Uem potrebbero rilanciare non solo la propria crescita ma anche la propria identità.

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