È da mesi ormai che la politica dei tassi di cambio attuata dalla Cina crea delle turbolenze nei mercati finanziari globali. O meglio, la confusione su tale politica non fa che intorbidire i mercati. Non è stata una grande mossa quella delle autorità di Pechino che nel comunicare le proprie intenzioni hanno fatto credere di non sapere ciò che stanno facendo. Ma criticare la politica cinese è più semplice che offrire consigli costruttivi. Il fatto è che il governo cinese non può contare su altre opzioni adeguate.
Non v’è dubbio che il Paese starebbe meglio con un tasso di cambio più flessibile in grado di eliminare le scommesse a senso unico per gli speculatori e di agire come ammortizzatore degli shock economici. Ma la letteratura sulle “strategie di uscita” – su come sostituire l’ancoraggio della valuta con un tasso di cambio più flessibile – fa capire che il momento in cui la Cina avrebbe potuto affrontare tale transizione senza problemi ora è passato.
Allora qual è il male minore per la Cina? Le autorità potrebbero continuare con l’attuale strategia di ancoraggio del renminbi al paniere delle valute estere e procedere con il programma di ristrutturazione e ribilanciamento dell’economia. Ma convincere gli osservatori scettici della strategia scelta richiederà del tempo, considerati i recenti passi falsi. Nel frattempo, gli investitori scommetteranno contro di loro. E lo stanno già facendo. I flussi di capitale verso l’estero sfiorano i 100 miliardi di dollari al mese. Facendo due conti, con 3mila miliardi di dollari di riserve, le autorità possono resistere alla crisi per almeno un paio d’anni. Le fughe di capitale tendono ad aumentare drasticamente con l’approssimarsi della fine. Una finestra di due anni è un’illusione.
In alternativa, si potrebbe consentire al renminbi di fluttuare più liberamente. La People’s Bank of China può permettere alla valuta di deprezzarsi contro il paniere di riferimento, ad esempio, dell’1% al mese, allo scopo di rilanciare la competitività dell’export cinese e affrontare i timori di una sopravvalutazione monetaria. Tenuto conto della debole domanda globale, un modesto deprezzamento di questo tipo non può fare molto per incentivare le esportazioni e sostenere la crescita economica. Inoltre, con il renminbi che ogni mese perde l’1% del proprio valore, la fuga di capitali registrerebbe un’ulteriore accelerata. Una terza opzione sarebbe una svalutazione “una tantum”, ad esempio, del 25%. Ciò rilancerebbe la competitività dell’export in un colpo solo. Se si deprezza la moneta fino al punto in cui è considerevolmente sottovalutata, stando a questa argomentazione, gli investitori poi si aspettano che si riprenda. Il capitale allora fluirà verso l’interno, e non verso l’esterno. Ciò presume, ovviamente, che tutti condividano l’idea per cui una svalutazione non ne presagisce un’altra. Presume che gli investitori restino impassibili di fronte all’abbandono delle autorità del loro precedente voto di evitare una mega-svalutazione. Ignora il fatto che le imprese cinesi, già in serie difficoltà, registrino un debito di valuta estera pari a mille miliardi di dollari che diverrebbe decisamente più difficile da onorare. E minimizza il devastante impatto economico di una mega-svalutazione sui Paesi con cui compete la Cina.
Per eliminazione, l’unica opzione che resta è quella di inasprire i controlli sui capitali. Rigidi controlli possono evitare che residenti e stranieri vendano il renminbi per la valuta estera nei mercati onshore e trasferiscano gli utili all’estero. Protette da questo Grande Muro finanziario, le autorità potrebbero lasciare che il tasso di cambio fluttui più liberamente consentendogli di deprezzarsi gradualmente senza provocare una fuga di capitali. Guadagnerebbero il tempo necessario per implementare riforme in grado di costruire la fiducia. Potrebbero ridurre la fornitura di liquidità alle imprese in perdita, costringendo le aziende ad eliminare la capacità in eccesso. Potrebbero ristrutturare i debiti problematici. Potrebbero ricapitalizzare le banche che hanno subito possibili danni ai bilanci a seguito di tali riforme. Potrebbero riparare la loro credibilità danneggiata.
Alcuni osservatori hanno suggerito che la Cina consideri un rafforzamento dei controlli. Ma la maggior parte degli economisti è restia a questa opzione. I controlli sui capitali comprometterebbero gli sforzi della Cina fatti per internazionalizzare il renminbi e metterebbero in imbarazzo l’Fmi, che ha recentemente aggiunto questa valuta nel paniere delle quattro maggiori valute che determina il valore dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP). L’obiezione più forte, però, è che imporre nuovamente i controlli rimuoverebbe la pressione di attuare riforme. Libere dalla pressione dei mercati di capitale internazionali, le autorità cinesi sceglierebbero di fornire liquidità alle aziende pubbliche e agli enti locali lasciando le banche in balia dei propri prestiti. Questo rischio di inversione di rotta è reale. Se si materializza, il tempo guadagnato dai controlli sui capitali sarà sprecato. Il problema allora sarà degenerato, e da una crisi sui tassi di cambio si passerà a un collasso della crescita. La migliore speranza della Cina, e del mondo, è che le autorità di Pechino capiscano che una crisi è terribile da smaltire.
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