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L'anticorruzione e la mala pianta della «furbizia»

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Italia

L'anticorruzione e la mala pianta della «furbizia»

Chi ha paura dell'anticorruzione? I corrotti, ovvio. I quali, mai rinunciando a predicare bene, tramano per vanificare ogni iniziativa che insidi la possibilità di lucrare nella penombra e nell'intrico normativo. Sordi a ogni moral suasion (in quanto privi di moral) i corrotti si piegano solo con le maniere forti: indagini, manette, condanne. Purtroppo, però, questa nutrita banda può contare su un ampio bacino di fiancheggiatori, emuli e ammiratori che li favoriscono tacendo, votandoli e adattandosi a pagare il conto di pessimi servizi a costi maggiorati. Ecco perché continuano a incontrare ostacoli le persone, gli enti, le imprese pubbliche e private, intenzionati a esplorare sentieri nuovi e sostenibili nell'italica palude dell'etica smarrita. Ostacoli diversi, che rallentano l'adozione degli strumenti di prevenzione e contrasto necessari e ormai urgenti per arginare il malcostume.

È di soli pochi giorni fa l'allarme dell'Anac per la scarsità di risorse utilizzabili, nonostante gli impegni sempre più numerosi che le vengono assegnati e per i quali si pretendono rapidità e precisione d'intervento. Un film visto e rivisto. La stessa Autorità affidata a Raffaele Cantone è nata con grande ritardo, dopo un balletto durato anni, che ha prodotto finte strutture e inutili relazioni. Idem per la legge 190/2012, la prima vera normativa anticorruzione, varata dal governo Monti in un momento di quasi tracollo del Paese: i primi a criticarla e a tentare di schivarla sono le stesse forze politiche che mai ne hanno prodotta una e nelle cui file accolgono corrotti e corruttori «messi in salvo» dalla «furia» della «magistratura politicizzata» (le virgolette non indicano sintesi forzose, ma testuali parole dei leader di partito).

Si potrebbero proporre riflessioni analoghe per la mancata legge sulle lobby, altra casella lasciata ostinatamente vuota, con la bizzarra motivazione che «l'Italia non è l'Unione sovietica, dove lo Stato controlla tutto», fingendo di non capire che un'anticorruzione solida – in vigore da oltre 20 anni in primari Paesi membri della Ue – non può che fondarsi su un grado di trasparenza, compresi un elenco pubblico di lobbyisti e registri in cui è tracciato ogni incontro tra i legittimi portatori di interessi privati e i politici. Non è difficile e nemmeno tanto sovietico.

Contrari a far sul serio si mostrano a volte gli stessi sindacati, anteponendo interessi di bottega alla caccia ai corrotti nella nostra Pa – che dovrebbe essere da tempo senza quartiere – intralciando nei fatti la revisione delle piante organiche, i sistemi di controllo delle presenze e della produttività, fino a obiettare sulle rotazioni degli incarichi e sull'introduzione delle innovazioni che, pure, faciliterebbero la vita di tutti. Ostacoli inaccettabili, incrostazioni corporative che producono sia i timbratori in mutande sia i tecnici infedeli, così difficili da licenziare.

Altrettanto sconsolanti le diffidenze verso strumenti già rodati (altrove), come il whistleblowing o l'utilizzo di agenti sotto copertura. È vero: esistono difficoltà oggettive a “innestare” regole importate dalla common law nel nostro ordinamento che, ad esempio, non garantisce l'anonimato al dipendente che denunci un illecito; altrettanto difficile è autorizzare un poliziotto a offrire mazzette per testare il grado di onestà del politico o dell'impiegato. Difficoltà cui può provvedere solo il Parlamento, ma all'alto rischio di leggi arruffate e perciò inapplicabili, si aggiunge un insidioso fiorire di dotte riflessioni su presunti rischi del whistleblowing per la serenità dei rapporti tra colleghi, su quanto sia disdicevole incentivare le “delazioni” dando così fiato a interessate calunnie, sugli abusi cui le forze dell'ordine si abbandonerebbero se autorizzate a non dichiararsi.
Sarebbe facile ironizzare sulla qualità di simili suggestioni, se queste non fossero così utili a quanti aborrono l'anticorruzione e tanto radicate nella cultura profonda del Paese di furbi. E se fosse un po' meno diffusa questa epidemia da cui l'Italia non sa o non vuole guarire.

ext.lmancini@ilsole24ore.com

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