
Che l’emergenza rifugiati e il modo in cui sarà gestita e risolta sia destinata a scrivere, nel bene e nel male, la storia di una nuova Europa non è una novità. Nuovo è il suo patto di ferro con la Turchia di Tayyip Erdogan, improvvisamente elevata a 29° paese membro dell’Unione. Di fatto se non di diritto. Con un clamoroso voltafaccia che sbriciola resistenze che sembravano insuperabili e, soprattutto, sorvola sulle condizioni minime richieste, cioè il rispetto dei cosiddetti valori fondamentali europei, come libertà di stampa e di espressione, parità di genere, tutela delle minoranze, curda prima di tutto.
Sono famose le amnesie selettive europee: non saranno né le prime né le ultime. Forse però non era ancora successo che un candidato all’adesione, vituperato fino all’altro ieri per la continua l’assenza dei requisiti essenziali a farsi partner, diventasse addirittura l’estensore di un nuovo accordo bilaterale, dove ovviamente raddoppia la richiesta di concessioni in cambio del contenimento dei flussi migratori.
Un vertice Ue difficile, estremamente divisivo, quello straordinario tenutosi ieri a Bruxelles. Che alla fine, nella notte, si è concluso con un rinvio al prossimo del 17-18 marzo, anche se la cornice dell’accordo sembra definita. Sia pure da finalizzare nei dettagli: la parte sempre più complicata in un’Europa che fatica a intendersi con se stessa.
Erdogan alza il prezzo, l’Europa si divide ma sostanzialmente abbozza. Perché non ha alternative. Ha bisogno della Turchia per mimetizzare la sua assoluta incapacità di governare la crisi: deve quindi esportarla nella speranza di risolverla al più presto, perché ogni giorno che passa senza una soluzione credibile erode la tenuta dei Governi europei. Dovunque. Anche nella Germania di Angela Merkel.
Ankara chiede il raddoppio da 3 a 6 miliardi degli aiuti Ue, la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi anticipata a giugno e l’accelerazione dei negoziati di adesione. In cambio si riprenderà tutti gli immigrati illegali e legali, anche siriani, approdati a partire da una certa data in Grecia. Gli europei si impegnano a loro volta a riaccogliere i siriani, in proporzione di uno a uno, per ciascuno di quelli estradati in Turchia. E poi a redistribuirli nell’Unione nei paesi disponibili ad accoglierli.
È esosa ma ha un tempismo perfetto la proposta turca. È piombata ieri sul tavolo dell’ennesimo vertice straordinario Ue sui rifugiati che, parallelamente, vorrebbe sancire l’emarginazione della Grecia dall’Unione ufficializzando la chiusura della rotta dei Balcani. Trasformando dunque un paese in crisi economica da 5 anni, privo di adeguate risorse finanziarie e con una geografia fuori controllo, in un immenso boccheggiante campo per profughi. Il loro rientro in Turchia potrebbe ora allentare la pressione sulla Grecia.
Ansiosa di ridimensionare il numero dei rifugiati ma decisa anche a tenere in vita l’ordine di Schengen, la libera circolazione di persone e merci vitale per il mercato unico, la Merkel sposa con convinzione la ricetta Erdogan sulle riammissioni, che del resto è da tempo anche la sua. Si oppone invece con forza all’isolamento della Grecia, perseguito con estrema determinazione da Austria, Ungheria, Polonia, Slovacchia e paesi dei Balcani.
Nemmeno con la fattiva collaborazione della Turchia, è però assicurato il successo dell’operazione. L’Europa resta spaccata sulle concessioni ad Ankara. Francia, Gran Bretagna, Austria e Slovacchia si oppongono alla liberalizzazione accelerata dei visti. Cipro si arrocca sul veto alla riapertura dei capitoli negoziali sull’adesione. Il gruppo dell’Est è contrario alla riallocazione per quote dei profughi, non importa se prima registrati e selezionati in Turchia.
Solita Europa, cinica e spregiudicata ma non per questo più lucida. Azzoppata dal trionfo dei propri nazionalismi, resta prigioniera del solito rischio di incongruenza. Perfino quando gioca con la propria identità e accetta di volteggiare al gran ballo con il Sultano. Si vedrà con quali risultati finali.
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