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Cina, crolla l’export: -25% a febbraio

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il futuro del dragone

Cina, crolla l’export: -25% a febbraio

Èun segnale molto brutto, e non solo per Pechino. Le esportazioni cinesi, valutate in dollari, sono calate a febbraio del 25,6% annuo. È molto, se non altro per le dimensioni dell’economia. Non è impossibile contestalizzare quel numero, e renderne meno brusco l’impatto: i dati sulle esportazioni sono normalmente molto volatili; nel 2009 si è avuta una flessione più incisiva (ma era l’anno della grande recessione); a febbraio 2015 le esportazioni erano cresciute del 48,3% e questo ha indubbiamente pesato nel confronto “aritmetico”; il calo è in termini nominali (ma Barclays calcola comunque una flessione del 15% in termini reali).

Quel numero però non è isolato. Piuttosto, conferma una tendenza al rallentamento della domanda estera della Cina: gli indici Pmi, che registrano con maggior tempestività (e minor precisione) il livello di attività economica, indicano una flessione degli ordini provenienti soprattutto dal Giappone (il cui Pil è calato nel quarto trimestre 2015 e potrebbe scendere anche in questo inverno 2016) e dagli Usa (che malgrado il brillante mercato del lavoro sembra incontrare qualche difficoltà).

Quella flessione così brusca, allora, non indica solo un problema cinese, ma conferma il rallentamento del commercio e della domanda globale. Le dimensioni della frenata - ancora una volta - non vanno troppo enfatizzate: il Global Leading Indicator di Unicredit, in calo a febbraio a -0,2 da +0,1 (l’unità di misura è la deviazione standard della serie), è ai minimi dal 2012 ma non segnala - spiega una nota di Andreas Rees - un vero crollo nell’interscambio globale.

Resta il fatto che la diagnosi delle condizioni dell’economia globale non migliora certo; e chiede grande attenzione. «I rischi sono aumentati ancora», ha detto proprio ieri il primo vicedirettore generale del Fondo Monetario Internazionale, David Lipton, riferendosi alle ormai vecchie previsioni di un rallentamento dell’attività economica elaborate dall’istituto di Washington. La situazione è resa più preoccupante «dalla percezione che in molte economie le politiche hanno esaurito le munizioni o si è smarrita la determinazione ad usarle». Forse perché la sfida è molto complessa da raccogliere per il mondo politico: «Una domanda bassa prolungata - ha aggiunto Lipton - e un circolo vizioso tra l’economia reale e i mercati possono generare ulteriori pressioni deflazionistiche, creando il rischio di una stagnazione secolare». Inoltre «l’offerta di lavoro e la crescita produttività del lavoro sono notevolmente calate nell’ultimo decennio, aggravando ulteriormente quelle dinamica negative».

Soluzioni semplici, dunque, non ce ne sono; e non basta invocare, semplicemente, una politica monetaria e fiscale espansiva, più riforme strutturali. Non a caso Lipton, a pochi giorni dalla conclusione del G-20 di fine febbraio, ha ancora invocato un’«azione concertata» tra le economie globali. «Dobbiamo evitare politiche economiche a somma zero e a somma negativa», ha spiegato: dietro i tecnicismi Lipton pensa alle «svalutazioni competitive» - le “guerre delle valute” dei mass media - che «semplicemente spostano la domanda da un paese all’altro», mentre occorre sostenere la domanda interna, anche aumentando i salari e tagliando le tasse, «soprattutto nei paesi che hanno surplus correnti con l’estero» (come la Germania e la Cina, per esempio, che Lipton perà non ha citato); e a tutte le misure che limitano commercio internazionale e flussi finanziari.

Il tema di una maggiore cooperazione internazionale, in un molto così integrato, è rapidamente passata dalle discussioni un po’ astratte alle proposte concrete. Le banche centrali - dopo le prime proposte avanzate nel 2014 da Raghuram Rajan, ex capo economista dell’Fmi e governatore della Reserve Bank of India - sono state le prime a essere chiamate all’azione. Lipton propone per esempio una rete di swap, in parte già esistente, tra autorità monetarie, che riduca la necessità per i paesi emergenti di mantenere elevate riserve valutarie: le risorse così liberate potrebbero essere usate per «investimenti, di cui c’è molto bisogno, in infrastrutture, istruzione, sanità».

Cosa occorrerà, però, perché gli Stati abbandonino le loro politiche, orientate alla sola economia interna? Il G-20 di Shanghai ha deluso tutti, malgrado aspettative non certo alte. La cosa non sorprende: la politica valutaria, le riserve, i cambi fissi - che andrebbero abbandonati - la ricerca di risorse finanziarie, le politiche commerciali, il sostegno alle “proprie” aziende, che generano imposte, non sono solo misura di politica economica, di per sé orientata all’efficienza, ma anche di politica ”politica” -la ricerca di consenso e potere - a cui è difficile rinunciare se non di fronte a una pressione fortissima da parte degli eventi.

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