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E per i candidati Usa Pechino è «assente»

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E per i candidati Usa Pechino è «assente»

Di solito la politica estera occupa un posto secondario nelle campagne per le presidenziali americane. Ma lo scenario globale è divenuto così complesso e rischioso (dal caos in Medio Oriente alla “muscolarità” della Russia alla fiacca politica dell’Europa) e i problemi troppo importanti per essere ignorati. In particolare, gli Stati Uniti devono affrontare la progressiva affermazione della Cina sia come sfidante strategico sia come partner sul versante economico e ambientale.

Sinora non sembra che tali questioni, come peraltro la creazione di nuove isole di controllo nel Mar Cinese Meridionale abbiano riscosso la dovuta attenzione da parte dei candidati.

Le questioni di politica estera affrontate finora sono piuttosto una proiezione di problematiche interne. Il punto è che negli Usa,mentre l’economia cresce e il tasso di disoccupazione è sceso al 4,9%, molti si sentono esclusi dalla prosperità del paese e attribuiscono la crescente diseguaglianza degli ultimi decenni agli stranieri e alla globalizzazione. Così la volontà di imporre limiti e vincoli al libero commercio attraversa i due schieramenti in campo. Fra i democratici, Bernie Sanders è contro il libero scambio, mentre Hillary Clinton sorvola su questo tema, ma si oppone al Keystone XL pipeline e al TPP (Trans-Pacific Partnership), che pur promosse come Segretario di Stato, e da cui, peraltro, è esclusa la Cina. Il rischio di una guerra commerciale per ora è basso ma sta crescendo.

Per dirla con le parole di Donadl Trump: «Il nostro paese è in serie difficoltà. Noi non vinciamo più. Noi non battiamo la Cina nel commercio, non il Giappone, non il Messico». Così il populismo economico si unisce a quello che ricorre agli stereotipi culturali, razziali ed etnici più sedimentati. Se applicate, le idee di Trump rovescerebbero decenni di leadership americana nella liberalizzazione degli scambi con l’imposizione di pesanti tariffe sulle importazioni nei riguardi innanzitutto di Pechino.

Pochi, o nessuno, dei candidati sembrano occuparsi davvero di ciò che sta avvenendo in Cina con l’economia manifatturiera in calo e una nuova emergente dei servizi ormai oltre il 50% del Pil. Il vecchio modello si sta sgretolando e, in questa fase di transizione, rallenta anche la crescita del nuovo trainato dall’aumento dei consumi interni. Da una parte, continuano i deflussi di capitali, dall’altra, la pervasiva presenza dello Stato ostacola le piccole e medie imprese private con una politica del credito favorevole a quelle pubbliche. Le riserve in valuta estera che costituivano sino a un anno e mezzo fa il prezioso “trofeo” dei leaders cinesi, sono calate rapidamente di circa 1/5 rispetto all’estate 2014. E ciò lascia meno spazio di manovra a Pechino mettendo a rischio anche gli sforzi per accreditare il profilo globale della Cina poiché non resta molto denaro da pompare nei maggiori progetti dei paesi in via di sviluppo.

Il tredicesimo Piano quinquennale prevede una crescita del 6,5% annuo, lo sviluppo del settore dei servizi, l’aumento della produzione di energia da fonti nucleari (anche per ridurre l’inquinamento), la costruzione di decine di aeroporti e linee ad alta velocità. Sviluppo, crescita ed esercito sono le parole chiave della politica cinese, assai più che lavoro e giustizia. Di fatto, gli investimenti in difesa superano (+7,6%) in percentuale, nel 2016, quelli della crescita economica e, comunque, sono nettamente superiori a quelli delle altre potenze regionali, mentre è sotto sforzo in Europa e indietro in India. Insomma, la Cina è molto avanti rispetto ai suoi vicini.

Pechino ha davanti sfide aspre: fiacca crescita industriale, debole commercio estero, quattro anni di “deflazione industriale”. Recentemente i leaders cinesi hanno affermato che le ristrutturazioni previste nel settore dell’acciaio e del carbone, nei prossimi cinque anni non determineranno milioni di liecenziamenti come nel 1994-1995.Ma nessuno sa quanti saranno i lavoratori complessivamente coinvolti. Secondo la Banca mondiale e l’Fmi, la perdita di un punto percentuale di crescita in Cina (che è il 15% del prodotto mondiale) avrebbe ripercussioni immediate e gravi sulla crescita dei paesi esportatori di commodities (come Australia e Brasile).

La Cina ospiterà il G20 il 4-5 settembre a Hangzhou con un obiettivo di leadership e orientamento verso un nuovo modello di governance economica e finanziaria globale, di crescita più efficiente e inclusiva.

Perciò, con la presidenza Obama ormai al traguardo, dovrebbe emergere da parte dei candidati alla Casa Bianca una visione del nuovo ordine mondiale da negoziare con Pechino in una prospettiva di cooperazione competitiva.