Mai dire mai. Con le lingue non è come con gli oggetti di cui si fa l’inventario. C’è sempre da imparare. Parole nuove, applicazioni diverse, usi e contaminazioni continue fanno sì che una lingua – e non la lingua morta di una civiltà scomparsa e codificata – si comporti come la linea dell’orizzonte rispetto ai nostri occhi: se si fa un passo avanti la linea si allontana a sua volta.
L’inglese, cioè quello che era un tempo il dialetto della città di Londra, con l’espandersi dell’Impero ha raggiunto i quattro angoli del globo e dalle colonie ha riportato a casa come strumento di libera circolazione all’interno del Commonwealth tutto quanto potesse servire. I contatti con altri Paesi, anche all’interno del Vecchio Mondo; i libri in italiano, francese e spagnolo che dal Rinascimento in poi gli Inglesi cominciarono a leggere; nonché le varie eredità storiche dovute a dominazioni e conquiste, hanno fatto sì che l’inglese si sia ibridato nel tempo.
E oggi, con i suoi 500mila lemmi registrati nel «Oxford English Dictionary» (laddove l’italiano del «Grande dizionario dell’uso», Utet ne conta 250mila), è di gran lunga la lingua con il lessico più ampio. Non è la lingua più parlata al mondo ma è tuttora la più ambita e necessaria in ogni ambito. Tant’è vero che esiste un inglese in uso nel villaggio globale (basic English o English for dummies), che non è una neo-lingua ma solo il linguaggio della sopravvivenza (in pace e in guerra) ed è quel che parlano un cileno e un giapponese – 1200 parole – al bar dell’aeroporto.
Per converso, l’inglese della diaspora – English – ha ormai trovato un suo improbabile plurale – Englishes – che designa l’insieme delle lingue (se vogliamo fingere che siano tante) in cui parlano e scrivono gli ex-sudditi di Sua Maestà, dal Canada all’India e dall’Africa all’Oceania. Immaginiamo, infatti, un vetro andato in frantumi. Ci si sorprenderà nel vedere che quel che sulla finestra era il riflesso del sole o il disco della luna, sul pavimento si moltiplica non all’infinito ma per tante volte quanti sono i pezzetti di vetro. Succede così anche quando si dissolve un impero. Quel che resta è un arcipelago di varianti, riconducibili a un ceppo comune, le cui isole non si allontanano – questo no, perché attraverso i media sono tutte in contatto – ma coltivano via via giardini dai diversi colori (leggi culture e letterature).
Ma l’inglese non è il latino e i tempi sono cambiati rispetto all’Alto Medioevo. Tra un paio di secoli – vogliamo scommettere? – non ci saranno nel mondo lingue neo-inglesi, al modo in cui ci sono quelle neo-latine (italiano, francese, rumeno, spagnolo e portoghese), per il semplice fatto che nelle ex-colonie britanniche i libri e i giornali si stampano in inglese. Con qualche venatura di creolo, ma pur sempre in inglese. E questo è un freno alla trasmutazione completa.
Lo Spanglish degli immigrati a «Nueva Yol» o a «Ditroy», per fare un esempio, potrebbe sembrare un caso di neo-inglese. Ma non è così. Poiché quel che distingue una lingua è la sua struttura profonda, lo Spanglish altro non è che inglese con deviazioni e accrescimenti lessicali spagnoli. Talora ritorna sulla propria sintassi spagnola e accoglie parole del lessico inglese dando luogo a un semplice alternarsi dei due idiomi.
Non dimentichiamo che l’inglese è una «gazza ladra» – lo è sempre stata – e nella sua storia ha preso parole, si calcola, da 350 lingue diverse. Qualche tempo fa un linguista famoso l’ha definita «una gran puttana ». Si accoppia con chiunque e si arricchisce, ma non si sposa.
Ha residenza in quattro continenti, si infioretta e ingioiella con prestiti che non restituisce, ma non cambia casato. Cioè cognome. Si traveste a seconda della gente con cui si accompagna – legulei, farmacisti, medici o commercialisti – e la maniera in cui fa conversazione di volta in volta è definito da chi se ne intende come « English for specific purposes». Sicché ciascuno ne beneficia a suo modo.
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