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La campana Ue suona per tutti e si chiama produttività

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la proposta italiana

La campana Ue suona per tutti e si chiama produttività

La vicenda dei sindacalisti che lamentano la troppa “produttività” del nuovo direttore della reggia di Caserta la dice lunga sulla malattia di un Paese che fatica a tirarsi su dalla più grave crisi del dopoguerra. La sfiducia di chi ha da tempo rinunciato al futuro, scegliendo di arroccarsi in difesa di piccole posizioni di rendita e privilegi del passato, è una zavorra che tira verso il basso anche chi ha forza e volontà di riscatto. Ma è anche un danno grave alla credibilità dell’Italia nei confronti dei nostri partner europei.

Quando lamentiamo la miopia delle regole Ue sul deficit e sul debito, faremmo bene a ricordarci di questo terzo parametro. Un indicatore magari non misurabile, certamente non scritto nei trattati, ma decisivo nel confronto aperto tra Bruxelles e l’Italia: quello della credibilità del nostro Paese nello sforzo di rilancio della propria economia.

Molto, in questo senso, dipende certamente dalle riforme che il governo fa o non fa, e magari dalla attuazione di quelle riforme. Ma soprattutto dipende dalla consapevolezza condivisa di un Paese della necessità di cambiare davvero per diventare più competitivo attraverso una maggiore produttività.

A ben leggere le pagelle europee, infatti, lo squilibrio principale che viene imputato all’Italia, accanto al debito, è «il protrarsi di una debole produttività, con una dinamica che si va deteriorando». È una campana, questa, che suona per tutti, non solo per il governo. C’è un’Italia che resiste alla ripresa. Che la affossa, che continua a guardare all’indietro e alle rendite sempre più asfittiche del passato.

Se tre riforme della pubblica amministrazione negli ultimi 20 anni non hanno alleggerito di un grammo il peso della burocrazia sarà anche colpa di leggi perfettibili, ma è soprattutto responsabilità di chi si è impegnato dall’inizio perché quelle riforme fallissero. Puoi fare la migliore delle leggi possibili sul pubblico impiego, ma se poi hai un sindacato che scava sotto i piedi di un bravo manager che vuole valorizzare una risorsa del nostro Mezzogiorno, l’esito sarà sempre il fallimento.

La riforma della scuola, pur annacquata già in fase di approvazione dalle resistenze corporative, è stata un passo avanti nella direzione della qualità e del merito. Ma l’anno scolastico sta ormai per finire e la melina sindacale ha di fatto impedito l’attuazione di quelle novità, bloccando anche la semplice convocazione dei comitati che devono fissare i criteri per premiare gli insegnanti meritevoli. Qui non è un decreto attuativo che manca, è qualcosa di più grave, è la mancanza del senso della sfida che tutti abbiamo davanti.

Per non parlare della piattaforma unitaria dei sindacati sulla riforma della contrattazione. Una questione decisiva per affrontare il nodo della produttività. Eppure anche le sigle sindacali più aperte al cambiamento hanno alla fine preferito accordarsi su un minimo comun denominatore all’interno del cortile rassicurante dell’unità sindacale. Poco importa se quel denominatore comune non fa compiere alcun passo avanti sul fronte del recupero della produttività.

In Germania, al contrario, quando alla metà del decennio scorso si è trattato di rilanciare un sistema industriale in crisi di competitività, i sindacati non hanno esitato a scambiare moderazione salariale con la difesa e il rilancio dell’occupazione. Le riforme Hartz del lavoro hanno certamente dato un contributo importante, ma la svolta è venuta non da questa o quella legge del governo, ma dalla consapevolezza condivisa delle cose da fare.

Sarebbe un errore, perciò, guardare oggi alla lettera di Bruxelles e alle pagelle della Commissione solo come un giudizio e una sollecitazione rivolti a Renzi e al suo Governo. Certo il premier dovrà trovare all’interno delle pieghe del bilancio (giusto evitare una manovra correttiva) le risorse per alleggerire di alcuni decimali il deficit e riportare il debito su un percorso credibile di riduzione. Altrettanto sicuramente dovrà trovare le risorse politiche per varare i decreti attuativi della riforma della pubblica amministrazione e, al più presto, realizzare i tagli alla spesa improduttiva necessari a ridurre davvero il peso del fisco. Ma la credibilità dell’Italia, in Europa e sui mercati, e la sua possibilità di rilanciarsi, passano per una consapevolezza diffusa della necessità di cambiare davvero per rendere più efficiente ed efficace l’organizzazione della produzione e della macchina amministrativa. La produttività è più che mai l’alfa e l’omega della ripresa italiana. E questa è una sfida per tutti. Non si tratta di fare ancora “sacrifici”, come recita una retorica di cui nessuno ha nostalgia, ma di saper leggere la realtà e scegliere insieme di farne ancora parte.

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