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La spinta di Draghi, la miopia dell'Europa

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il grande cambiamento

La spinta di Draghi, la miopia dell'Europa

(Afp)
(Afp)

Il boom (in particolare in Italia, trainato dalle banche) dopo la mezza delusione iniziale. Forse i mercati hanno letto meglio cosa il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, gli ha mandato a dire con la svolta del 10 marzo, d'impatto analogo, se non superiore, a quella del luglio 2012, quando promise di fare qualsiasi cosa per salvare l'euro. Ora bisogna battere la deflazione e sostenere una ripresa debole e fragile e Draghi (tra molto altro) ha annunciato anche che la Bce, in pratica, pagherà le banche per finanziare le imprese e rilanciare l'economia reale. «Dobbiamo evitare di chiedere troppo alla politica monetaria», disse nel luglio 2008, quando era ancora Governatore della Banca d'Italia. Un'altra epoca. Oggi, da king-maker europeo, la sua avventura nel mondo dei tassi zero e sotto zero si è spinta su terre inesplorate e controverse, come dimostra la pioggia di critiche arrivata dalla Germania. Un salto comunque di portata rivoluzionaria che scuote l'albero rinsecchito di un'Europa politica divisa e lenta a decidere. E che mette i governi, e le classi dirigenti di ogni Paese, di fronte alle loro responsabilità.

In una partita del genere, che si gioca sul campo dell'economia globalizzata, velocità, chiarezza d'intenti e determinazione sono fattori decisivi. Draghi – all'inizio di febbraio, ospite della Bundesbank – ha messo in fila le forze che concorrono alla deflazione: prezzo del petrolio e delle materie prime, sviluppo tecnologico, e-commerce. In sintesi, piaccia o no, la forza del mercato in continua evoluzione che spiazza non solo le sovranità monetarie ma anche quelle politico-statuali in tutte le sue articolazioni. E che impatta, attraversando imprese e famiglie, sulle persone. Ora con effetti ben attesi (più trasparenza, più concorrenza e prezzi più bassi) ora con la fine parallela di innumerevoli lavori e mestieri, erodendo sicurezze e generando incertezze. Il mercato arriva comunque prima, politici, legislatori e regolatori rincorrono.

Il sistema che si è andato costruendo attorno all'economia della condivisione (la sharing economy) è un esempio chiaro di come certi processi avanzano travolgendo con i loro imprevedibili modelli di business schemi e prassi consolidate. Parliamo di aziende giovani o giovanissime – gestite da un'organizzazione o da un'impresa– che grazie all'innovazione tecnologica consentono su base volontaria e su piattaforme di scambio modello “persona a persona” (peer to peer) di far coincidere domanda e offerta dei consumatori per i più disparati servizi mediante il pagamento di una tariffa o la messa a disposizione di propri beni o altri servizi professionali. Il mercato dell'auto, con Uber e la rivolta dei taxisti, è il caso più conosciuto dello sviluppo della sharing economy, che è sbagliato considerare come un giocherello da quattro soldi per giovani intraprendenti. AirBnb, impresa californiana, è il colosso globale sul mercato dell'ospitalità (l'Italia è terza nella classifica degli affitti temporanei) e vale circa 25 miliardi di dollari. In un recente rapporto dell' Istituto Bruno Leoni (IBL) Francesco Del Prato nota che AirBnB impiega un migliaio di lavoratori assunti direttamente per gestire il proprio servizio in 190 paesi, generando un volume di affari di circa 17 miliardi di dollari laddove la grande catena alberghiera Hilton impiega 300 mila unità per un giro d'affari che rimane sotto i 10 miliardi.

È evidente che i modelli di business frutto del nuovo e dirompente internet-capitalismo, e a tutto favore dei consumatori, pongono problemi seri. Il “concorso” alla deflazione è tra questi, e Draghi prova a sua volta a reagire mettendo sul piatto il rilancio in grande stile dell'economia reale e immaginando che gli investimenti e la fiducia, grazie ad una manovra che non ha precedenti in Europa e che è moltissimo di più di una svolta monetaria, possano sostenere una ripresa debole e battere i prezzi zero o sotto zero.
Il problema è cosa il timoniere della BCE, ora nelle vesti di Grande Supplente, trova accanto al suo famoso bazooka che ha appena sparato colpi pesantissimi. Il (semi-disperso) piano Junker per gli investimenti al confronto è una pistola ad acqua. L'Europa è divisa, decide poco e spesso male, comunque in ritardo. Nell'eurozona la battaglia sulla flessibilità di bilancio ha fatto perdere di vista la guerra per la ripresa. I governi arrancano e temporeggiano con i sondaggi politici sempre alla mano. I Parlamenti nazionali (vedi il caso italiano sulla legge per la concorrenza) frenano e chiudono porte, più che aprirle. C'è da chiedersi fino a quando potranno coesistere una Banca centrale ultra innovativa e un'Europa politica che non guarda avanti. La contraddizione è stridente e non annuncia bel tempo.

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