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Un Testo unico per superare la giungla dei mercati

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FINANZA E REGOLE

Un Testo unico per superare la giungla dei mercati

Reuters
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Gli spettri antieuropeisti che agitano la politica e l'opinione pubblica, più o meno populisti, nascono da insoddisfazioni e timori che non possono essere trascurati se si vuole efficacemente affrontare tali spettri. Chi vuole ancora credere nel progetto europeo deve innanzitutto interrogarsi senza alibi su ciò che non funziona.

Gli spunti non mancano, non solo sugli argomenti che più appassionano i media, dalla crisi dei profughi all’ipotesi Brexit, ma anche per il più tecnico e meno accessibile tema della regolamentazione dei mercati finanziari, rispetto al quale bail in e crisi bancarie sono solo la punta dell’iceberg.

I mercati dei capitali – che hanno dimensione europea, se non globale, e da questo non si torna indietro –, necessitano di una disciplina e di una vigilanza integrate, efficienti, eque e comprensibili.

Ebbene, anche agli occhi di chi si occupa professionalmente di queste materie, il quadro è di una complessità, di una frammentarietà e – spesso – di una irrazionalità sconfortanti.

Si consideri la produzione normativa. Il processo di emanazione della disciplina europea, in particolare nel settore dei mercati finanziari, segue il cosiddetto approccio Lamfalussy, che prevede quattro distinti livelli di regolamentazione. In estrema sintesi e semplificando, al livello più alto vi sono direttive quadro adottate dal legislatore europeo, che devono poi essere specificate ad un secondo livello, tramite atti normativi di maggior dettaglio adottati anche a seguito di consultazioni tecniche con le autorità di settore per maggiore armonizzazione e coordinamento. Una volta approvati questi provvedimenti, gli Stati membri devono recepirli nei rispettivi ordinamenti o, nel caso dei regolamenti direttamente applicabili, devono quantomeno adattare la disciplina interna alle novità europee. Segue un terzo livello in cui vengono adottate linee guida e misure di diversa natura per facilitare il coordinamento e l'enforcement della disciplina nei diversi Paesi, e un quarto in cui le istituzioni europee vigilano sul rispetto delle norme da parte degli Stati. Nel settore finanziario, le autorità di vigilanza europee (come ad esempio l'EMSA) hanno assunto un ruolo essenziale nel processo, avendo spesso il compito di predisporre gli atti poi soggetti all'approvazione del legislatore comunitario.

L'obiettivo di questo articolato sistema era quello di facilitare il consenso politico e la convergenza, prevedendo una legislazione che si precisa e definisce per approssimazioni successive. Il risultato pratico che si deve constatare, tuttavia, è un meccanismo barocco di continui rimandi tra autorità diverse, in cui anche il più attento osservatore rischia di perdersi nella ragnatela delle competenze, tra provvedimenti a diverso stadio di attuazione e di diverso livello gerarchico, spesso affidati a soggetti diversi e sottoposti alle pressioni di gruppi di interesse che hanno il tempo e le risorse per destreggiarsi in questa giungla burocratica.

Il quadro delle autorità di regolamentazione non è più chiaro e razionale. Sempre a grandissime linee, negli ultimi anni alla Banca Centrale Europea si sono aggiunte autorità di settore quali L'ESMA (per i mercati finanziari), l'EBA (che si occupa di aspetti diversi della disciplina bancaria), e l'EIOPA (assicurazioni), la cui stessa localizzazione geografica (la prima a Parigi, la seconda a Londra, la terza a Francoforte) è più una concessione al compromesso politico che frutto di esigenze di efficienza, e non può che dare argomenti a chi già lamentava i costi causati dall'aver sparpagliato le istituzioni europee tra Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo. E non mancano altri soggetti, altre sigle, altre competenze: basti citare lo European Systemic Risk Board, responsabile della vigilanza macroprudenziale, ma ve ne sarebbero molti altri. Questa rete di autorità, già di per sé complessa, deve poi interagire e coordinarsi con le autorità nazionali; e qui uno dei problemi è che i singoli Stati non seguono un modello unico di articolazione dei poteri di vigilanza, né tantomeno uno che replichi l'organizzazione a livello europeo: quasi tutte le soluzioni sono rappresentate, da sistemi con un regolatore unico, a sistemi con un numero variabile di regolatori, i cui compiti sono talvolta distinti per “soggetti” (ad es., assicurazioni, banche, società quotate, ecc.), e talaltra per “funzioni” (trasparenza informativa, stabilità, ecc.), o varie combinazioni di queste divisioni a volte frutto della stratificazione storica e della gelosia reciproca più che di effettive e razionali necessità. Sovrapposizioni, incertezze, confusione e conflitti di competenze si moltiplicano.

Come se le cose non fossero già sufficientemente complicate, gli stessi poteri regolamentari delle autorità europee vivono in una sorta di limbo, limitati da una ormai risalente giurisprudenza della Corte di giustizia (la cosiddetta “dottrina Meroni”), originariamente legata a esigenze di democraticità. Le autorità devono quindi limitarsi a emanare proposte che richiedono il timbro degli organi di vertice dell'Unione (ad esempio, i “technical standards” dell'ESMA, che devono essere approvati dalla Commissione), generando così di fatto un meccanismo non dissimile dalla “navetta” che molti criticano nelle assemblee legislative bicamerali.

A tutto si può cercare di dare sistematizzazione, e si può tentare di individuare una razionalità anche nei sistemi più complessi. È tuttavia chiaro che nemmeno il più raffinato dei filosofi scolastici avrebbe facilmente potuto giustificare l'architettura istituzionale brevemente descritta, e se studiosi e giuristi faticano anche solo a seguire l'evoluzione normativa, come si può pretendere che lo faccia il non specialista, la cui vita professionale o personale è tuttavia incisa anche profondamente da queste materie?

Ridisegnare le cose secondo uno schema più lineare non è facile, ma è legittimo il sospetto che vi sia anche qualcuno che beneficia di un sistema tanto opaco da risultare impenetrabile ai non iniziati.

Eppure, qualcosa si potrebbe fare. In attesa di una più generale risistemazione, ci limitiamo a proporre – solo abbozzandole – due idee non rivoluzionarie, che tuttavia potrebbero avere un impatto significativo.

La prima è procedere alla redazione di un “Testo Unico” del diritto dei mercati finanziari e del diritto bancario europei. Questa operazione di consolidazione non richiederebbe stravolgimenti normativi, ma rappresenterebbe un'opera di ordinamento dei diversi provvedimenti esistenti in un corpo unitario e coordinato, un'operazione che molti legislatori nazionali attuano periodicamente, al fine di sistematizzare materie altrimenti fuori controllo. Certamente le cose sono in questo caso complicate dalla diversa natura e diversi effetti di alcuni dei provvedimenti (si pensi a direttive e regolamenti), ma sarebbe un primo passo, non impossibile, per fare pulizia e chiarezza e che aiuterebbe operatori, interpreti e semplici cittadini. Un secondo spunto è superare definitivamente la richiamata dottrina Meroni, già recentemente intaccata dai giudici europei, affidando alle autorità europee poteri (e responsabilità) regolamentari esercitabili in modo più semplice, diretto ed immediato, evitando l'attuale balletto di competenze tra queste e la Commissione. Contro il rischio di (ulteriore) burocratizzazione, che comunque l'attuale approccio non evita, si potrebbe utilmente pensare a più efficaci meccanismi di legittimazione e responsabilizzazione delle authorities indipendenti.

Insomma: un passo avanti nell'autonomia e rapidità decisionale delle istituzioni europee. Per evitare di cadere nella ragnatela e vischiosità del continuo compromesso anche su questioni secondarie e per superare la vischiosità e l'incertezza della babele delle troppe discordanti voci nazionali.

Osservatorio Diritto Commerciale Europeo
Università Bocconi

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