Il ritiro di Putin nel giorno fatale delle Idi di Marzo, a cinque anni dall’inizio della rivolta di Damasco e cinque mesi dopo l’intervento di Mosca, è una sorta di monito: la Siria è una guerra che nessuno può vincere e che tutti possono perdere, anche la Russia. Non ha bisogno neppure di essere troppo articolato e convincente. La guerra americana all’Iraq nel 2003, con le sue catastrofiche conseguenze, è lì a dimostrarlo: iniziata come un conflitto contro il regime di Saddam Hussein si è allargata a tutto il Medio Oriente e saldandosi con quella siriana, dopo la caduta dei raìs nel 2011, è arrivata in Europa con il terrorismo jihadista e i profughi.
Dalla lezione irachena ne deriva un’altra: meno si staziona nel mondo arabo con truppe straniere meglio è. Ricordiamocelo anche per la Libia. Gli americani si ritirarono da Baghdad dopo 9 anni, con 4.500 marines morti e oltre 100mila civili iracheni uccisi; ma commisero l’errore di lasciarsi dietro uno stato fragile, diviso tra sciiti, sunniti e curdi, poi diventato preda dell’Isis che in Iraq ha le sue radici originarie.
Gli Usa non avevano un sostituto per Saddam, un altro raìs che tenesse in pugno il Paese. E qui l’opinione di Putin è molto chiara: ancora per qualche tempo dovete tenervi Assad e il suo regime. Può non piacere come idea, anzi non piace per niente, ma l’esportazione della democrazia ha dato risultati devastanti.
Tre sono i punti chiave.
Il capo del Cremlino invia un messaggio agli Stati Uniti e all’Europa: la Russia può fare la guerra e deciderne in parte le sorti salvando Assad dalla rovina ma non intende scendere in campo in una guerra mondiale a pezzi. Certamente non rinuncia all’uso della forza e mantiene operative le sue basi aeree, la flotta nel Levante e i missili: gli aerei russi stanno sostenendo le truppe di Damasco nell’offensiva a Palmira.
Con il ritiro delle truppe dalla Siria Putin manda un segnale anche a Bashar Assad e all’Iran, compresi gli Hezbollah libanesi, per studiare una transizione accettabile al tavolo di Ginevra.
Ma si rivolge anche a Turchia e Arabia Saudita, il fronte sunnita che minaccia da mesi un intervento militare, con il quale vuole un accordo non un conflitto allargato, per motivi strategici ed economici: Mosca è in crisi, dipende dai prezzi delle materie prime e dai corridoi dell’energia.
La guerra del Siraq, nonostante il cessate il fuoco e i negoziati di Ginevra, finisce soltanto quando cadranno Raqqa e Mosul, la capitale siriana e la roccaforte irachena del Califfato. Si tratta di operazioni militari ma soprattutto, politiche: per questo ha offerto la sua collaborazione alla coalizione guidata dagli Stati Uniti. Con grande tempistica Putin ha approfittato del vuoto di proposte Usa e dell’Europa, messa alle corde dalla crisi dei migranti, per dettare la sua agenda: mantenere il controllo di buona parte della Siria e delle basi sul Mediterraneo con il minore impegno militare possibile. Si può discutere se è un segnale di forza o di debolezza ma sicuramente dopo avere guidato l’escalation militare ora vuole apparire il protagonista di trattative cominciate con una tregua che finora ha retto oltre le aspettative. Putin è la soluzione per evitare la guerra mondiale a pezzi, celeberrima definizione di Papa Bergoglio? Difficile fare pronostici: le guerre mondiali del secolo scorso non cominciarono come tali ma lo diventarono. Putin è impantanato in Ucraina con le sanzioni e i suoi partner per arrivare a una pace sono la Turchia di Erdogan, che pensa di avere perso soltanto il primo round contro Assad, un’Arabia Saudita sprofondata nella guerra dello Yemen in cerca di rivincita, un Iran che ritiene il Levante parte della sua proiezione strategica. Insomma le motivazioni delle potenze musulmane sciite e sunnite coinvolte in questa guerra per procura sono ben presenti. Ma è anche chiaro lo spaventoso bilancio: 250mila morti, sei milioni di profughi, 10 milioni sotto il livello di povertà. Un dato Unicef è impressionante: durante il conflitto sono nati 3,7 milioni di bambini che non hanno conosciuto altro che la guerra, tre milioni non vanno a scuola. Il loro futuro è anche il nostro. È questa la guerra che dobbiamo vincere qui e altrove.
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