Commenti

Logiche aziendali e dignità di sistema

  • Abbonati
  • Accedi
L’ANALISI

Logiche aziendali e dignità di sistema

  • –di AntonellaOlivieri

Non si menziona mai Borsa italiana nelle 110 cartelle di documentazione prodotta per l'illustrare il «merger of equals» tra Deutsche Boerse e l'Lse , ossia l'acquisizione di Londra da parte di Francoforte, come viene definita l'operazione nelle parti legali. Non è una “svista” perchè Piazza Affari non è più un'entità autonoma. Borsa Spa non è più un'entità autonoma,bensì un'appendice del London Stock Exchange che, come tale, segue il destino del gruppo a cui appartiene, senza avere voce in capitolo. Nulla da eccepire sulla validità industriale dell'aggregazione, che porterà senz'altro benefici anche a Milano.

Ma la parabola della Borsa privatizzata dimostra che quando in gioco c'è una società di interesse “sistemico” - se non si vuole adoperare l'aggettivo “strategico” - non si può confidare solo nelle logiche aziendali per salvaguardare interessi più ampi a un tavolo dove si confrontano interlocutori che hanno per riferimento o che trovano sostegno in altri sistemi. Quando Borsa italiana, nel 2007, decise di aggregarsi con Londra concordò condizioni più che onorevoli. Non che Milano fosse una piazza inefficiente - tutt'altro, ieri come oggi - ma le dimensioni dei due mercati anche allora non erano minimamente confrontabili. Eppure, probabilmente grazie anche al fatto che l'operazione aiutò Lse a mantenere l'indipendenza, Borsa Spa strappò cinque posti nel board della holding su un totale di 12 e la promessa - affatto tacita, visto che era stata messa nera su bianco - di una staffetta al vertice dell'entità combinata tra il ceo della Borsa della City che avrebbe guidato la prima fase e l'ad di Borsa italiana che sarebbe subentrato successivamente.

La governance concordata durò lo spazio di un mandato: la rappresentatività italiana in consiglio fu ridimensionata e nessuno fece valere l'impegno all'avvicendamento manageriale. Anche perchè nel frattempo tutti gli interlocutori erano cambiati. A partire dagli azionisti. Al momento della fusione, il blocco italiano, col 28% del capitale, era avanti a tutti. I principali azionisti di quello che si rivelò ben presto non essere affatto un blocco compatto erano le prime due banche italiane, Intesa e UniCredit che - giustamente dal loro punto di vista aziendale - non ritenendo core business la partecipazione in una società di gestione del mercato azionario, per quanto importante, la liquidarono rapidamente.

Sotto il profilo aziendale, non si può dire che Borsa italiana sia stata depauperata dall'abbraccio con Londra. Piazza Affari ha perso però un ruolo come “istituzione”, accentuando progressivamente l'anima commerciale tipica delle filiali “regionali” di una multinazionale. Può sembrare solo un dettaglio, ma per esempio l'area studi, che era sopravvissuta alla privatizzazione, è stata smantellata nel processo di aggregazione, non contribuendo direttamente al conto economico. Eppure, aveva contribuito non poco al dibattito sul ruolo del mercato dei capitali per l'emancipazione delle imprese italiane, ancora troppo dipendenti nel finanziamento dal canale bancario. E, ciliegina sulla torta, dal sistema che l'ha partorita Borsa italiana, in tempi più recenti, è stata addirittura penalizzata rispetto alle altre piazze continentali - tra cui le stesse Londra e Francoforte - con l'introduzione non armonizzata della Tobin Tax, che ha reso meno conveniente, in termini relativi, investire in un'ottica di lungo periodo nelle società quotate sul listino di Piazza Affari che, ovviamente, sono tutte italiane.

© Riproduzione riservata