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La politica monetaria ha i suoi limiti

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EURO E MERCATI

La politica monetaria ha i suoi limiti

Per la seconda volta nel giro di tre mesi, il presidente della Banca Centrale europea, Mario Draghi, si è trovato la settimana scorsa alle prese con una reazione dei mercati finanziari alle decisioni del consiglio e alle sue parole in conferenza stampa diversa da quella che avrebbe sperato.
A dicembre, ha affidato la sua autodifesa a un discorso a New York all’indomani della riunione di consiglio. Ieri, ha approfittato del Consiglio europeo di Bruxelles, la cui sessione d’apertura è stata dedicata all’esame dell’economia, introdotto dallo stesso Draghi, per rendere una insolita dichiarazione alla stampa. Giovedì scorso, la Bce aveva varato un pacchetto a tre dimensioni (taglio dei tassi d’interesse, aumento degli acquisti mensili di titoli, finanziamenti alle banche a tasso zero o addirittura con un premio a chi aumenterà il credito all’economia reale).
Il pacchetto era “forte”, come lo ha definito ieri, e andava al di là delle aspettative dei mercati, ma in conferenza stampa Draghi aveva puntualizzato che al momento non sembra necessario andare oltre con i tagli dei tassi d’interesse. Questo è bastato a invertire la rotta dei mercati. Per di più, la Federal Reserve ha dato mercoledì un segnale chiaro di voler ammorbidire il percorso di aumento dei tassi negli Stati Uniti. Risultato, un rialzo sensibile dell’euro. Un esito che non può piacere alla Bce, anche se questa, con le ultime decisioni, mostrava di puntare sull’espansione del credito più che sul cambio per consolidare la ripresa ed evitare la deflazione.

Quindi Draghi ha scelto ieri non solo di ripetere che «i tassi d’interesse resteranno ai livelli attuali, o più bassi, molto a lungo», una frase già contenuta nelle dichiarazioni di giovedì, ma anche di ribadire che «se cambia lo scenario, siamo pronti a usare ogni strumento», compresi quindi i tassi d’interesse. Questo chiarimento è stato il motivo immediato dell’uscita di ieri a Bruxelles: a fronte di un’economia che da dicembre sta perdendo slancio, con rischi al ribasso che si sono intensificati, la Bce vuole evitare che i mercati remino contro. Non è detto che il nuovo intervento di Draghi basti.
Ma ci sono altri due messaggi, di più lungo periodo, nelle parole del banchiere centrale. Il primo, ribadito quasi a ogni uscita pubblica, è che la ripresa è stata finora sostenuta dalla politica monetaria quasi da sola. E qui Draghi ha ripetuto l’immancabile richiamo ai Governi a fare la propria parte, sul fronte delle politiche di bilancio e delle riforme strutturali, con politiche che stimolino la domanda, più investimenti pubblici, tasse più basse. C’è probabilmente la consapevolezza, anche se il presidente della Bce insiste sempre che non ci sono limiti all’azione delle banca centrale, che la politica monetaria si sta avvicinando a un punto oltre il quale la sua efficacia si affievolisce, in assenza di un policy mix che la assecondi.

L’altro messaggio è di ancor più lungo termine, ed è la necessità di fare chiarezza sul futuro dell’unione monetaria. Draghi è da tempo sostenitore dell’adozione di una prospettiva di lungo periodo, anche decennale, come quella che venne stabilita nel percorso verso la creazione dell’euro, e sulla quale poi ci si possa misurare tappa per tappa. In Europa invece la veduta è corta e nemmeno si riesce a fare progressi sulla soluzione della crisi “du jour”, sia essa quella greca, o quella dei rifugiati. O sulle cose già concordate, come l’unione bancaria, la cui terza gamba, la creazione di uno schema comune di assicurazione dei depositi bancari, che Draghi ritiene indispensabile, rischia di restare monca ancora per anni. In quasi quattro anni e mezzo alla guida della Bce, Draghi ha spesso acciuffato l’unione monetaria per i capelli quando sembrava sull’orlo del baratro. L’episodio che viene ricordato continuamente è quello del “Whatever it takes”, “Faremo tutto il necessario”, del discorso di Londra nel luglio 2012, ma Draghi ha cominciato assai prima, dalla primissima riunione che ha presieduto, nel novembre 2011, quando ha invertito i rialzi dei tassi decretati sotto il suo predecessore e ha fornito la liquidità a lungo termine (Ltro) a un sistema bancario che, molti lo hanno dimenticato, era sulla soglia dell’asfissia.

Dopo l’intervento del luglio 2012, ha varato il piano Omt, per acquistare i titoli dei Paesi in crisi, piano mai applicato, ma riconosciuto come l’elemento determinante per dissipare i dubbi di frantumazione dell’area euro. Quindi ha cominciato la lunga marcia verso l’adozione di misure non convenzionali: prima l’adozione della “forward guidance”, che offre indicazioni prospettiche sul percorso futuro della politica monetaria, poi, a partire dall’estate del 2014, la prima tornata di Tltro, i finanziamenti alle banche per spingerle a fare credito a imprese e famiglie, e l’acquisto di titoli, che culminerà, nel marzo 2015, con l’acquisto di titoli pubblici, la misura più controversa, il quantitative easing, quando il pericolo che l’eurozona scivoli in deflazione si fa più grave.
Le critiche non sono mancate, dentro e fuori il consiglio, su due fronti: chi ritiene che la Bce di Draghi abbia fatto troppo poco troppo tardi e chi che abbia fatto troppo e tolto ai Governi la spinta alle riforme che il banchiere centrale reclama. A ogni punto di svolta, tuttavia, sono state le misure della Bce il principale collante dell’area euro e gli interventi decisivi nelle emergenze. Attenzione, dice oggi Draghi, questo potrebbe non bastare più, non solo per tenere a galla l’economia e impedire la deflazione, ma soprattutto per garantire un futuro all’euro.

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