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Bilanci sociali oltre la reputazione

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Scenari

Bilanci sociali oltre la reputazione

Benché lontano dai riflettori della stretta attualità, che è sempre più spesso sinonimo di emergenza, il dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa e sulla sostenibilità della crescita mette a segno continui progressi. Nell’arco di pochi anni il livello di sensibilità è molto cresciuto sia nella parte di mondo più sviluppata, sia nei Paesi emergenti, spesso ad opera delle stesse multinazionali che, dopo avere ampiamente praticato la delocalizzazione produttiva, sono ora impegnate nel migliorare la qualità dei processi e delle catene di fornitura.

Per l’Europa, storicamente all’avanguardia nelle politiche di Csr, un punto di non ritorno è rappresentato dalla direttiva n.95/2014 che, in ambito Ue, prevede nuove regole di comunicazione delle informazioni non finanziarie (non financial reporting) limitatamente ai gruppi bancari e alle società quotate di grandi dimensioni. Nei giorni scorsi la Commissione europea ha lanciato una consultazione pubblica per implementare le linee guida non vincolanti (non binding guidelines) previste dall’articolo 2 della direttiva stessa, che aveva visto la luce poco meno di due anni fa e dovrebbe entrare in vigore nei singoli Paesi membri alla data del primo gennaio 2017.

Scopo della consultazione è raccogliere, entro il termine del 15 aprile prossimo, indicazioni e suggerimenti da parte delle organizzazioni interessate, che spaziano dalle rappresentanze del mondo dell’impresa a quelle delle diverse categorie di stakeholders, tra cui le espressioni di cittadinanza attiva.

Poiché l’articolo 2 della direttiva fa riferimento alla metodologia di comunicazione delle informazioni di carattere non finanziario, compresi gli indicatori di performance generali e settoriali, i primi destinatari dell’invito a formulare proposte appaiono proprio le organizzazioni professionali specializzate nel reporting. Un segmento notevolmente cresciuto negli ultimi anni, ma che ancora fatica a identificare metodologie comuni e standard di comparabilità dei dati elaborati.

Il campo delle comunicazioni rilevanti è particolarmente vasto: si spazia dall’impatto ambientale a quello sociale, dal rispetto dei diritti umani alle differenze di genere, dal contrasto alla corruzione fino alle politiche di remunerazione del top management e alla governance dell’impresa. Occorre evitare la tentazione, pur comprensibile, che vengano enfatizzati gli aspetti più virtuosi dell’attività e minimizzati quelli che presentano potenziali criticità. Il tarlo dell’autoreferenzialità è sempre in agguato e, pur in un contesto di adempimenti a carattere volontario, sarebbe in grado di vanificare gli effetti positivi della trasparenza informativa.

Né si può pensare che, per rispondere all’appello della direttiva Ue, basti rinfrescare la versione classica del bilancio sociale, un documento che ha funzionato e, in parte, continua a funzionare bene se collocato in un’ottica di Csr reputazionale, ma che risulta oggettivamente inadeguato in una logica di Csr strategica, dove occorre dare risposte sostanziali sulla creazione di valore e la sostenibilità del business. D’altra parte, il principio cardine della direttiva è il comply or explain, ossia la facoltà di non adeguarsi alle prescrizioni ma con l’obbligo, in tal caso, di motivare adeguatamente la mancata pubblicazione delle informazioni. Siamo, dunque, ben oltre il guado della reportistica fai-da-te, che si risolveva spesso in un mero elenco di obiettivi e buone pratiche.

La prima sfida che il recepimento della direttiva impone riguarda, così, la tracciabilità e la misurazione delle performance nel tempo. Solo l’analisi dei risultati, infatti, è in grado di sancire l’effettivo raggiungimento dei target indicati. Il secondo passaggio, ancora più difficile da immaginare al momento, è la comparabilità degli indicatori, finalizzata a mappare progressivamente lo stato dell’arte delle politiche di sostenibilità.

Si tratta di mete impegnative, soprattutto se si tiene presente il contesto di grave difficoltà in cui le imprese dell’Unione europea si muovono attualmente. L’Italia, però, non parte svantaggiata in quanto, sia per sensibilità storica sia per capacità d’innovazione, presenta già oggi buone prassi e metodologie in grado di proporsi come standard di riferimento.

Anche gli esiti della consultazione pubblica, per la quale resta meno di un mese di tempo, serviranno a dirci se il nostro Paese vorrà e saprà mettersi alla guida dei processi virtuosi che stanno rinnovando dall’interno il nostro sistema di sviluppo.

elio.silva@ilsole24ore.com