Commenti

Gli anni di piombo in Italia e la lezione per sconfiggere il terrorismo islamico

  • Abbonati
  • Accedi
Scenari

Gli anni di piombo in Italia e la lezione per sconfiggere il terrorismo islamico

(LaPresse)
(LaPresse)

Dopo l'arresto di Salah Abdeslam a Molenbek, venerdì scorso, in molti si sono chiesti come fosse stato possibile, per l'uomo più ricercato d'Europa, sfuggire così a lungo agli investigatori senza mai allontanarsi dalla capitale belga. Ieri, mentre per tutta la giornata Bruxelles e l'Europa restavano attonite di fronte a una strage a lungo temuta, ancora una volta la domanda era la stessa: come è stato possibile per gli attentatori concepire e attuare un piano articolato in una città comunque ancora in stato di allerta anti-terrorismo?

Per rispondere ad entrambe le domande, piuttosto che accusare di inefficienza la polizia o i servizi di intelligence belgi, credo che occorra sottolineare il ruolo cruciale svolto, in entrambe le vicende, dai “fiancheggiatori”. Parola antica e nostrana – “fiancheggiatori” – almeno tanto quanto nuova e globale è quella di foreign fighters. Ed è singolare che mentre tutti ci sforziamo di cercare di capire quanti sono e dove sono nascosti i foreign fighters, così poca attenzione sembriamo porre riguardo a chi li nasconde. Una cosa che stride soprattutto agli occhi di noi italiani, che il fenomeno del terrorismo lo abbiamo fronteggiato e alla fine sconfitto per quasi due decenni a partire dall'inizio degli anni Settanta. Nel terrorismo brigatista i fiancheggiatori giocarono un ruolo di primo piano, che consentì a lungo alle cellule del “partito armato” di sfuggire alla caccia degli investigatori. Se ne ebbe conferma quando le BR rapirono e tennero in ostaggio per 55 giorni, nel centro di Roma, il leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro, poi fatto ritrovare cadavere in via Caetani.

La lotta contro i fiancheggiatori dei brigatisti rappresentò uno degli assi decisivi della strategia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa volta a debellare il fenomeno terroristico. Lo Stato Islamico differisce dalle Brigate Rosse per un'infinità di caratteristiche; ma entrambe le organizzazioni, come ogni gruppo terroristico, sono accomunate dal ruolo cruciale e insostituibile che i fiancheggiatori svolgono per la sopravvivenza e la protezione delle cellule operative, prima e dopo le azioni militari. Proprio noi italiani dovremmo quindi essere i meno sorpresi della capacità di Salah di celarsi allo sguardo delle forze di polizia o degli assassini dell'aeroporto e del metrò di poter compiere le proprie azioni omicide. Semmai potremmo meglio di altri rammentare a tutti l'assoluta rilevanza della distruzione della rete dei fiancheggiatori per rendere la vita impossibile agli operativi.
Che i terroristi dell'ISIS godano di appoggio e simpatia tra una parte delle comunità islamiche presenti in Belgio come in Francia come in Italia è più che una probabilità: è una certezza. Basti ripensare alla rabbia repressa di una parte degli astanti alla fase finale dell'assedio posto dalle forze dell'ordine belghe al “covo” di Salah. Ciò non fa assolutamente di tutti i musulmani dei “fiancheggiatori” (ci mancherebbe!) ma, per parafrasare il vecchio Mao, se non si prosciuga l'acqua in cui nuotano le cellule dell'ISIS costituite in Europa, sconfiggerle sarà impossibile.

L'altro tema evocato in maniera ricorrente in materia di lotta al terrorismo è quello di Schengen. Qui occorre esser chiari al limite della brutalità: le frontiere perdono la loro funzione quando gli spazi che separano diventano omogenei. Oggi, ciò che mette a rischio Schengen è l'insufficiente convergenza delle politiche dei governi europei in materia di terrorismo (e anche immigrazione). Ben oltre il tanto invocato coordinamento delle forze di polizia e di intelligence, ciò che occorre per salvar Schengen è una politica comune Europea su questo tema che può nascere solo dalla concreta assunzione di responsabilità, comune e solidale, degli Stati membri riguardo la lotta la terrorismo. Un'azione comune e solidale implica, però, che non possano essere solo i Paesi di volta in volta colpiti a sentirsi “in guerra”, e ad adottare tutte le misure ritenute necessarie per vincerla: ma qui, la strada da fare è ancora tanta, mentre il tempo è dannatamente poco.

© Riproduzione riservata