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Come «disboscare» la giungla finanziaria

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il dibattito e le idee

Come «disboscare» la giungla finanziaria

leggiamo con interesse le condivisibili proposte dei Professori Marchetti e Ventoruzzo nell’articolo «Un Testo unico per superare la giungla dei mercati» pubblicato sul Sole il 13 marzo scorso. L’obiettivo di avere autorità di regolamentazione finanziaria (ancora più) efficaci è attraente; la strada suggerita per raggiungerlo – ovvero, il superamento dei principi sanciti nella cosiddetta “sentenza Meroni” – crediamo però che richieda qualche riflessione aggiuntiva.

La sentenza Meroni, pronunciata nel 1958 e, nella sostanza, dimenticata per i successivi tre decenni, è tornata recentemente agli onori dei dibattiti accademici e politici essenzialmente perché invocata dalla Commissione europea per consentirle di mantenere un controllo sull’esecuzione del diritto dell’Ue, limitando il ruolo e l’indipendenza delle numerose agenzie europee istituite negli anni. Meditare sul tema del rafforzamento di questi organismi attraverso le lenti di quel (lontano) precedente rischia, pertanto, di restringere il campo visivo, riducendo la questione a un dibattito sull’incisività dei poteri conferibili agli organismi tecnici e sulle modalità di controllo degli stessi.

Gli interessi in gioco ci sembrano, infatti, andare ben oltre la questione particolare dell’individuazione di nuovi e più efficaci meccanismi di legittimazione e responsabilizzazione delle authorities indipendenti.

Prendiamo ad esempio quello che – giustamente – Marchetti e Ventoruzzo definiscono «un balletto di competenze» tra Commissione e autorità europee nella definizione delle regole di vigilanza finanziaria. La Commissione ha l’ultima parola sui technical standards adottati dalle authorities europee (anche) perché è la Commissione a rispondere, davanti al Parlamento europeo, della redazione di tutte quelle norme tecniche che integrano o modificano gli atti legislativi dell’Ue. The devil is in the details: la crisi finanziaria degli ultimi anni ha ben dimostrato come una disattenzione della politica sui dettagli tecnici, a volte anche poco significativi se presi singolarmente, può permettere la formazione di una valanga capace di travolgere anche le economie più solide. Bene: con il Trattato di Lisbona la risposta dell’Ue alla necessità di accountability della legislazione di dettaglio è stata quella di individuare nella Commissione la prima responsabile della normazione tecnica, quando la stessa non viene decentrata in capo ai singoli Stati membri, e quindi di chiamare proprio quest’ultima a risponderne davanti al Parlamento.

Si può modificare questa impostazione? Certo che sì. Ma quale sarebbe il disegno politico in cui collocare la riduzione delle competenze tecniche della Commissione per affidarle ad agenzie autonome? Se si intende compiere un ulteriore passo verso la “politicizzazione” della Commissione, allora occorre anche affrontare il tema dell’eccessiva frammentazione del potere politico europeo, che la Commissione condivide – oltre che con il Parlamento europeo – con il Consiglio europeo (e il suo presidente permanente) e con il Consiglio (e il suo Presidente di turno), quando non anche con intese politiche bilaterali tra alcuni (importanti) Stati membri. E ancora, di fronte ad un rafforzamento della dimensione politica della Commissione occorrerebbe domandarsi se in essa troverebbero ancora adeguata allocazione le competenze strettamente tecniche dalla stessa esercitate in altri settori, come il diritto antitrust o il controllo dei bilanci nazionali.

Nel quadro istituzionale attuale dell’Ue, che non è maturo e sedimentato come quello di molti Stati membri, il rafforzamento di autorità indipendenti solleva questioni più ampie di quelle connesse al singolo settore in cui è proposto. Pertanto, per ottimizzare la governance finanziaria non basta creare autorità tecniche efficienti, ma occorre altresì inserire questi organismi in un quadro istituzionale coerente e coeso. Il settore finanziario, per quanto importante, non può portare ad una rivoluzione istituzionale che sia priva di un respiro e di una visione capace di abbracciare l’intero processo di integrazione. Il rischio che si corre, altrimenti, è quello di giustificare di volta in volta, secondo esigenze contingenti, deroghe alle norme generali, promuovendo così un processo di integrazione a macchia di leopardo, in continua emergenza, guidato dalla necessità di risolvere il singolo dossier del momento.

La “dottrina Meroni”, quindi, è una trappola: porta a ritenere che un rafforzamento delle autorità indipendenti passi essenzialmente dalla necessità di individuare forme specifiche di accountability, quando in realtà una simile evoluzione, se non collocata in un quadro coerente di sviluppo dell’intero sistema di governo dell’Ue, finirebbe semplicemente per costituire un ulteriore elemento di disordine della struttura istituzionale europea. Ben venga, dunque, una più chiara ripartizione tra competenze tecniche – affidate ad autorità indipendenti – e competenze politiche, evitando “balletti” e sovrapposizioni. Purché, però, si sfrutti l’occasione per individuare chiaramente quale sia il centro politico dell’Ue, superando le attuali frammentazioni, che troppo spesso la condannano all’inefficienza.

Analogamente, anche la proposta di un “testo unico” non può che essere salutata con favore: semplificazione e razionalità sono sempre ben accette. Ma di che tipo di fonte normativa si tratterebbe? Un atto dell’Unione europea direttamente applicabile, che coniugherebbe il vantaggio dell’essere uguale per tutti gli Stati membri con la preclusione di attuazioni differenziate? Oppure una direttiva, che, conformemente al principio fondamentale della sussidiarietà, sarebbe in grado di venire incontro alle singole specificità nazionali? Oppure sarebbe semplicemente uno strumento di (ri)cognizione – e in tal caso, quale sarebbe il valore aggiunto rispetto alla situazione attuale?

Anche sul piano delle fonti del diritto, del resto inestricabilmente connesso con quello delle istituzioni che quelle fonti producono, non sembra potersi prescindere da uno sguardo sistematico che sappia attuare le condivisibili esigenze di razionalizzazione normativa in maniera coerente con l’impianto organizzativo dell’Ue. Ciò al fine, nient’affatto secondario, di poter estendere in futuro le innovazioni sistemiche meritoriamente proposte da Marchetti e Ventoruzzo agli altri settori nei quali potrebbe presentarsi tale necessità.

Massimo Condinanzi è professore ordinario di Diritto dell’Unione europea all’Università degli Studi di Milano

Jacopo Alberti è assegnista di Ricerca all’Università degli Studi di Pavia

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