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L’arma spuntata della lista nera

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l’analisi

L’arma spuntata della lista nera

a cadenze regolari l’opinione pubblica mondiale scopre l’acqua calda: nel sistema finanziario mondiale ci sono dei buchi neri di opacità, i cosiddetti “paradisi” tollerati dalle economie avanzate da almeno cinquant’anni. Per qualche giorno, i riflettori si accendono su fatti che gli addetti a lavori ben conoscono: i paradisi sono un fenomeno strutturale, anche se la loro fisionomia cambia nel tempo.

la comunità internazionale li combatte con armi spuntate, come le “liste nere”, mentre interventi più incisivi – come l’embargo finanziario – non sono stati mai applicati. A dimostrazione che l’opacità è un tango che si balla in due: i paradisi non esisterebbero se le economie avanzate non avessero interesse a tollerarli.

La rilevanza dei paradisi finanziari – Paesi e territori ad alto grado di opacità delle regole – ha progredito di pari passo con la globalizzazione dei mercati finanziari. La mobilità dei capitali ha seguìto il principio dei vantaggi comparati: poiché esistono operatori che per ragioni diverse – lecite o illecite – considerano un asset la riservatezza, taluni Paesi trovano conveniente offrire livelli di opacità maggiori della media mondiale. Allo stesso tempo, la presenza dei paradisi (offshore) viene in generale tollerata dai Paesi avanzati, con un grado di tolleranza che è ciclico. È un esempio classico della cosiddetta entropia della regolamentazione finanziaria: il disegno delle regole oscilla tra gli estremi della tolleranza e dell’intransigenza a seconda della fase congiunturale, spinta dalla analisi dei costi e benefici politica.

Di conseguenza anche la fisionomia del fenomeno paradisi ha un tratto strutturale – è sempre presente – e uno congiunturale – le sue caratteristiche sono mutevoli.

Emblematico quello che è successo all’indomani della Grande Crisi, che su queste pagine è stato immediatamente rilevato: la crisi finanziaria aveva modificato la fisionomia dei centri offshore. Ricordiamo i dati. Nel 2010 avevamo analizzato 64 tra Paesi e territori sovrani, che rappresentano il 28% del totale dei Paesi (222) censiti nelle statistiche internazionali. La loro dimensione complessiva sembrava relativamente piccola: insieme rappresentavano il 4% del Pil mondiale. Ma il discorso cambiava guardando il loro peso relativo in termini di depositi bancari: quasi il 30% del totale mondiale. Cosa è accaduto ai paradisi durante la crisi finanziaria?

Un primo gruppo di 42 Paesi, che battezziamo degli “offshore calanti”, registrava un calo sistematico della sua attività di raccolta sull’estero. Si registravano cadute di oltre il 50% per Andorra e Gibilterra; la Svizzera segnalava un calo del 42%, come pure cadono le Bermuda (33%), le Isole del Canale (32%), Liechtenstein (21%) e Bahamas (18%); in calo anche Barbados (7%) e Cayman (5%). Anche l’attrattività di Panama – di cui tanto si parla in questi giorni – sembrava calata: i flussi erano diminuiti del 12%. Il dato nuovo era che la categoria degli offshore calanti coincideva con quella degli “offshore tradizionali”.

Se infatti consideriamo come offshore tradizionali i Paesi così classificati dalla Banca dei Regolamenti Internazionali, scoprivamo che erano quasi tutti offshore calanti, tranne quattro eccezioni: Samoa,Aruba,Libano e Macao.

Questi territori facevano invece parte del secondo gruppo, composto da 22 Paesi, che chiamiamo gli “offshore emergenti”, caratterizzati invece da una crescita dell’attività bancaria di raccolta sull’estero. Le banche degli offshore emergenti mostravano un incremento effervescente dei volumi:si andava da una crescita di ben 17 volte di Tuvalu e del 160% dell’Angola, a risultati solo un po’ meno rilevanti di Tonga (86%), Grenada (72%) e Isole Marshall (55%), come pure del Brunei (43%) e del Kenya (33%).

Gli offshore emergenti vedevano la comparsa di nuovi Paesi e nuovi continenti, che scoprivano l’arma della competizione regolamentare per incrementare le proprie attività bancarie e finanziarie.

Ma la mappa dei paradisi è sempre in movimento. I paradisi tradizionali – come Panama – hanno ripreso fiato, forti del fatto che l’atteggiamento della comunità internazionale, a partire da quello degli Stati Uniti, è ciclico: dipende dal modificarsi delle convenienze economiche e politiche: per cui il grado di tolleranza varia a seconda del momento congiunturale, o del Paese che si comporta da paradiso.

Inoltre lo strumento finora utilizzato - le “liste nere” - ha mostrato tutti i suoi limiti. L’efficacia di una lista nera presuppone l’innestarsi di un meccanismo “bastone e carota” rispetto al flusso di capitali internazionali: i flussi di capitali si dovrebbero allontanare da un Paese presente nella lista, per poi ritornare quando il Paese viene giudicato nuovamente conforme alle migliori pratiche internazionali. In realtà l’analisi dei dati mostra che l’effetto delle liste nere è ambiguo, per non dire controproducente: la presenza di un Paese nella lista nera può divenire una sorta di “patente di opacità”, che è fattore attrattivo per quei capitali che all’opacità danno un valore.

In linea di principio, esisterebbe un altro strumento, vale a dire l’embargo finanziario: ai Paesi con regolamentazioni lassiste andrebbe negato l’accesso al sistema degli scambi internazionali bancari e finanziari. Negli ultimi cinquant’anni abbiamo visto mettere in atto embarghi sui beni e servizi più disparati, alcuni anche francamente molto discutibili, come quelli sui medicinali. Un embargo sui paradisi finanziari non lo abbiamo mai visto. Una ragione ci sarà.

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