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Un fondo per le imprese che valorizzi la loro «ricchezza…

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Un fondo per le imprese che valorizzi la loro «ricchezza immobilizzata»

Crescere, o fallire. Mai come in questa fase di ripresa lentissima le prospettive delle aziende più piccole si sono manifestate in un’alternativa così brutale. E così ardua: gli stessi debiti che minacciano la continuità aziendale impediscono infatti alle aziende che più avrebbero bisogno di aumentare le proprie dimensioni di ottenere i finanziamenti per crescere.

Come uscire da questa impasse è forse il tema principale del 27° Workshop Ambrosetti sullo «Scenario dell’economia e della finanza»; e alla «Finanza per la crescita» è dedicata la ricerca dell’Ambrosetti Club – il comitato che coinvolge 350 capi azienda in diretto rapporto con tecnici e rappresentanti delle istituzioni – che sarà presentata oggi a Villa d’Este di Cernobbio da Valerio De Molli, amministratore delegato di The European House -Ambrosetti.

Imprese finanziariamente deboli – quelle più piccole – non riescono oggi a ottenere crediti da banche con bilanci in difficoltà, come testimonia il livello delle sofferenze. Eppure “dentro” queste aziende c’è una grande ricchezza, letteralmente immobilizzata. La ricerca dell’Ambrosetti Club parte proprio da qui, dai 350 miliardi di terreni e fabbricati valutati, spiega De Molli, a valori sostanzialmente in linea con il mercato. Come trasformarli in cash flow? La proposta dell’Ambrosetti Club è quella di creare un fondo che li acquisti, lasciandoli in locazione all’impresa che con il ricavato potrà però ripianare alcuni debiti e investire («E qui occorrerà – aggiunge De Molli – l’indirizzo del legislatore che vincoli queste risorse»). Il team di ricerca della Ambrosetti ha individuato, su 24.560 imprese tra 10 e 200 milioni di fatturato, un 10% circa (1.390 aziende per 10,9 miliardi di asset in terreni e fabbricati) potenzialmente interessato a questo strumento. Ipotizzando la partecipazione di circa la metà di queste imprese, si può immaginare che con un fondo da 5,5 miliardi si sblocchino 3,8 miliardi, da destinare – per esempio – per 1,8 miliardi al rimborso del debito e per due miliardi agli investimenti. Le statistiche sul passato permettono di stimare, come effetto, 2,6 miliardi di fatturato aggiuntivo con 10mila nuovi occupati. Ci guadagnerebbero tutti, spiega De Molli: le imprese, le banche che recuperano crediti, i lavoratori che non perdono il posto, i nuovi addetti, e il fondo stesso, al quale nella simulazione viene riconosciuto un ROE del 6,1 per cento.

A chi l’iniziativa? «A noi non interessa se il fondo sia privato o pubblico. Interessa lo schema di gioco, che crea un’opportunità di liberare risorse tali da rendere più competitive le imprese e far girare l'economia». Perché farlo è chiaro: delle 24mila aziende prese in esame, 2.200 circa – aggiunge De Molli – sono praticamente fallite. Un numero che potrebbe salire e che rappresenta «il costo del non fare».

La crescita interna però non basta. Per diventare più solide, le aziende italiane – e soprattutto le più piccole – devono aggregarsi. Un tema delicato, che si scontra con una cultura imprenditoriale che dà grande valore alle dimensioni piccole, familiari le quali permettono grande indipendenza ma impediscono la nascita di veri e ambiziosi progetti industriali. Senza animal spirits, la volontà di agire, la politica economica può però fare poco: non può che creare incentivi, nella speranza che vengano colti; e l’Ambrosetti Club ha individuato, oltre a quelli esistenti, altre sei interventi possibili. Anche se nessuno di questi, spiega De Molli, è un “trigger”, un grilletto in grado di far scattare un’ondata di fusioni e acquisizioni: si tratta di nuove agevolazioni fiscali che rendano più conveniente il processo.

Sarebbe opportuno allora che le aziende italiane cambino cultura. Sono, è noto da tempo, troppo piccole: «In Italia, Francia e Spagna - nota la ricerca - le imprese fino a 50 milioni di fatturato rappresentano circa un terzo del totale delle società di capitali totali, mentre per Germania e Regno Unico rappresentano solo un decimo del totale». Sono anche molto dipendenti dal credito bancario. Il problema è europeo, e la Banca centrale di Francoforte si è trovata molto in difficoltà nell’applicazione della sua politica monetaria in un'area economica dove l’80% dei finanziamenti aziendali era erogato attraverso un canale bancario interrotto dalle difficoltà di bilancio delle aziende di credito. Tassi bassissimi e acquisti di titoli non sono bastati a far ripartire i prestiti – un tema molto discusso a Cernobbio - mentre le stesse imprese avevano i bilanci sotto pressione. La recessione italiana è stata (e in un certo senso è ancora) una delle “recessioni da bilanci” individuate da Richard Koo, capo economista di Nomura, anch’egli non a caso ospite del workshop Ambrosetti.

Quell’80% di finanziamenti bancari (sul totale) è però la media di Eurolandia che nasconde, per l’Italia percentuali ancora più alte: solo il 7% del debito delle imprese italiane – peraltro molto elevato rispetto al patrimonio netto – passa per canali non bancari.

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