A differenza dell’Occidente la Cina prende la strategia economica molto sul serio. Lo si è visto molto chiaramente al recente Forum per lo sviluppo economico della Cina (Cdf) svoltosi a Pechino. Si tratta di un vertice ai massimi livelli che si tiene ogni anno dal 2000, al termine del Congresso annuale del Partito nazionale popolare. Voluto in origine dall’ex premier Zhu Rongji – uno dei riformisti più attenti alla strategia della Cina moderna –, il Cdf è diventato in poco tempo una piattaforma di alto livello per attivare sinergie tra i massimi responsabili politici cinesi e una sfilza di accademici, funzionari stranieri e leader aziendali internazionali. In sostanza, si tratta di uno stress test intellettuale che obbliga la leadership cinese a difendere le strategie e le politiche formulate di recente davanti a un pubblico esigente e rigoroso di esperti stranieri.
Non è sempre facile estrapolare un unico messaggio da un evento di questo tipo, specialmente perché il Cdf, un tempo vertice alquanto riservato, si è trasformato in un evento dalle dimensioni e dai costi esorbitanti alla stregua di Davos, con oltre 50 sessioni articolate in tre giorni. In ogni caso, avendo assistito a 16 dei 17 incontri (a esclusione del primo), mi sono fatto l’idea che il Cdf di quest’anno sia stato particolarmente ricco di implicazioni strategiche per le enormi sfide economiche alle quali la Cina dovrà far fronte. E, da quello che ho visto, l’ovvio problema che si preferisce ignorare è quello dell’identità centrale stessa del modello economico cinese, in particolare se tale modello debba essere imperniato sull’offerta oppure sulla domanda.
Il miracolo dello sviluppo trentennale della Cina – una crescita reale del Pil annuo del 10% dal 1980 al 2010 – in definitiva si deve alla bravura del paese a imporsi in qualità di produttore finale. La Cina ha goduto di un potente dinamismo che non ha uguali, trainato dal settore manifatturiero e da quello dell’edilizia.
Tuttavia il modello imperniato sulla produzione non è stato la ricetta decisiva per concretizzare le aspirazioni cinesi a diventare entro il 2020 una società moderatamente prospera. Questa realizzazione è stata messa in secondo piano dalle critiche degli ormai famosi “Quattro UN” (dalle iniziali delle rispettive parole inglesi) profferite dell’ex presidente Wen Jiabao, che nel 2007 correttamente aveva predetto che il modello basato sulla produzione era «sbilanciato, instabile, scoordinato e insostenibile». Ovviamente, queste erano parole in codice per alludere a risparmi sproporzionati, investimenti sovrabbondanti, richiesta di risorse a tempo indeterminato, degrado ambientale e crescenti disparità di reddito. Un nuovo modello si rendeva dunque necessario non soltanto per scongiurare simili insidie, ma anche per evitare la temibile “trappola del reddito medio” che abbindola le economie a rapidissimo sviluppo quando raggiungono quella soglia di reddito alla quale la Cina si va rapidamente avvicinando.
La critica di Wen ha innescato un acceso dibattito interno sfociato nella decisione strategica di riequilibrare l'economia cinese orientandosi verso un modello basato sui consumi, così come è stato messo a punto dal Dodicesimo Piano Quinquennale per il periodo 2011-2015. Questo nuovo approccio si è basato su tre componenti fondamentali: uno spostamento verso i servizi per dare rinnovato slancio alla creazione di posti di lavoro; un’accelerata urbanizzazione per aumentare i salari reali; una rete di sicurezza sociale più robusta per offrire ai nuclei famigliari cinesi la sicurezza necessaria a distogliere i loro nuovi redditi da un risparmio improntato all’eccessiva cautela e a convogliarli in consumi discrezionali.
I risultati del Dodicesimo Piano Quinquennale appena giunto al termine sono strabilianti. Questo percorso, tuttavia, è lungi dall’essersi concluso. Se gli obiettivi della Cina al riguardo di servizi e urbanizzazione sono stati raggiunti con ampio margine, i risultati finali si sono rivelati insufficienti, perché non sono riusciti a creare una rete di sicurezza sociale più robusta (ovvero finanziata in toto). Di conseguenza, i consumi personali sono aumentati di pochissimo, passando dal 35% del Pil nel 2010 a solo il 37% circa nel 2015.
Malgrado l’operazione incompiuta di ribilanciamento verso i consumi, sembra che di questi tempi la Cina stia abbracciando ulteriori cambiamenti nella sua basilare strategia economica – spinta da una vasta gamma di “iniziative sul fronte dell’offerta”. Quell’enfasi è stata formalizzata nel recente “Work Report” del primo ministro Li Keqiang, che ha presentato la nuova strategia del Tredicesimo Piano Quinquennale (relativo al periodo 2016-2020) appena reso noto. Nell’individuare gli “otto compiti prioritari” per il 2016, Li colloca le riforme sul versante dell’offerta al secondo posto, subito dietro l’attenzione che il governo dovrà dare alla stabilità economica per contrastare il rallentamento della crescita nel paese. Al contrario, l’importanza data alla necessità di accrescere la domanda interna – da tempo l’obiettivo principale della strategia di ribilanciamento cinese basata sui consumi – è stata retrocessa al terzo posto di quella che il governo chiama la sua agenda di lavoro.
In Cina, dove i dibattiti interni sono meticolosamente preparati in anticipo, nulla accade per caso. Nel discorso inaugurale che ha fatto al Cdf di quest’anno, il vice primo ministro e membro del Comitato permanente del Politburo Zhang Gaoli ha sottolineato l’esigenza di dirigere iniziative imperniate sull’offerta verso il “grande pericolo” cinese. Del ribilanciamento trainato dai consumi, invece, si è fatta menzione soltanto in modo sporadico.
Forse sono troppo cavilloso. Dopo tutto, nell’equazione della crescita ogni economia deve concentrarsi sia sul versante dell’offerta sia su quello della domanda. Nondimeno, questo cambiamento di attenzione – nel Tredicesimo Piano Quinquennale come pure nel dibattito nazionale e nei messaggi lanciati al Cdf – mi pare un segnale importante. Temo che possa stare a indicare un allontanamento prematuro dal modello imperniato sui consumi e il tentativo di tornare a un modello imperniato sulla produzione, che rappresenta un ambiente sicuro per la Cina e che da tempo ha ricevuto i favori della progettazione industriale e della pianificazione centrale.
La strategia è il più grande punto di forza della Cina, ciò che conferisce credibilità al suo impegno nei confronti della trasformazione strutturale. Tuttavia, affinché in Cina emerga e si affermi la domanda dei consumatori resta ancora molto da fare. Di sicuro, si tratta di una sfida non indifferente. In ogni caso, ridurre l’attenzione data all’impegno strategico potrebbe invitare a rimettere in discussione lo spostamento essenziale dell’identità economica di fondo della Cina, che oggi si rende in ogni caso necessario.
(Traduzione di Anna Bissanti)
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