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Virus-spia, i «paletti» del Pg di Cassazione

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Scenari

Virus-spia, i «paletti» del Pg di Cassazione

Le intercettazioni effettuate mediante Trojan horse possono essere utilizzate pienamente come prova, ma solo nei processi di mafia e terrorismo, non in quelli per reati che non rientrano nella categoria della criminalità organizzata. Continua pagina 19

È questa, in estrema sintesi, la posizione che sosterrà giovedì mattina, davanti alle sezioni unite della Cassazione, la Procura generale della suprema Corte, nell’udienza destinata a stabilire l’utilizzabilità o meno del materiale intercettato tramite virus informatico installato su pc, tablet, smartphone, capace di videoregistrare ogni istante della vita privata e di relazione della persona, ovunque sia. Un “cavallo di Troia” strategico per penetrare nel fortino di una criminalità sempre più tecnologicamente avanzata, ma micidiale per la sua invadenza nella vita privata.

Dopo l’autoregolamentazione delle Procure sulle intercettazioni, anche alle sezioni unite toccherà quindi una sorta di autoregolamentazione, nell’ambito della cornice normativa esistente e in attesa di eventuali interventi del legislatore. Peraltro, l’appuntamento (anticipato dal Sole 24 ore del 26 marzo scorso) è importantissimo anche nell’ambito del dibattito sulle intercettazioni e sul bilanciamento tra esigenze delle indagini, tutela della privacy e diritto di informazione. Una settimana fa, nel corso di un’intervista pubblica a La Spezia, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha detto che «il governo aspetta la decisione delle sezioni unite con grande attenzione. Purtroppo – ha aggiunto – ci siamo abituati ad affrontare il tema delle garanzie in modo sbagliato, pensando che riguardi sempre altri, i politici, i terroristi, e mai noi come singoli. In realtà, se guardiamo agli strumenti che la tecnologia offre e alla loro pervasività, scopriamo che non mettere dei limiti al loro utilizzo, non espone solo i politici o i terroristi, ma tutti, perché questi strumenti sono così forti da tenere sotto controllo una dimensione di massa. È un problema che riguarda i poteri dello Stato ma anche i soggetti privati». Il ddl delega sul processo penale, nella parte sulle intercettazioni, non tocca anche questo aspetto ma prevede, ricorda Orlando, una semplificazione della procedura di autorizzazione delle intercettazioni sulla falsariga di quanto previsto per la criminalità organizzata. Lì, quindi, potrebbero essere innestate le norme sul Trojan.

L’udienza delle sezioni unite nasce da una richiesta di intervento della VI sezione penale che, con l’ordinanza n. 59 del 10 marzo 2016 (si veda Il Sole 24 ore del 9 aprile), ha preso le distanze da un precedente contrario all’uso come prova delle captazioni effettuate tramite virus informatico. La VI sezione ha sottoposto quindi tre questioni alle sezioni unite: se il decreto che dispone l’intercettazione mediante Trojan debba indicare anche i luoghi della captazione, pena la sua inutilizzabilità; se in mancanza di questa indicazione, l’eventuale inutilizzabilità colpisca soltanto le captazioni avvenute «nei luoghi di privata dimora» in cui non sia in corso un’attività criminosa; e infine, se nei procedimenti di criminalità organizzata l’intercettazione tramite virus informatico possa essere autorizzata a prescindere dall’indicazione dei luoghi.

Il processo da cui è nata la richiesta della VI sezione penale riguardava un caso di criminalità organizzata. In quell’occasione la Procura, rappresentata dall’Avvocato generale Nello Rossi, ha escluso che vi siano impedimenti normativi al pieno utilizzo come prova delle conversazioni intercettate tramite Trojan, trattandosi appunto di un processo per mafia. È dunque presumibile che giovedì Rossi confermi questa tesi, peraltro discussa, non senza contrasti, nell’Ufficio guidato da Pasquale Ciccolo e confluita nella requisitoria scritta già depositata. Sì, dunque, al pieno utilizzo del Trojan nei processi di mafia e terrorismo, senza che il giudice debba preventivamebte indicare i luoghi della captazione. E su questo punto, secondo indiscrezioni che circolano al Palazzaccio, potrebbe esserci anche un via libera delle sezioni unite, superando quindi il precedente contrario del 2015 (sentenza n. 27100).

Più incerta la situazione per gli altri reati. La Procura - sempre in base all’impostazione di Rossi nell’udienza di marzo e a quel che si vocifera - sarebbe contraria a estendere la stessa regola, sia pure con dei limiti, ad altre categorie di reati, diversi da quelli di criminalità organizzata previsti dagli articoli 407 e 51, terzo comma, del Codice di procedura penale. Ne rimarrebbero fuori, quindi, i reati di corruzione, seppure contestati nella forma dell’associazione semplice.

L’occasione servirà alle sezioni unite anche per definire una volta per tutte la nozione di «criminalità organizzata». Ma se la decisione confermasse le conclusioni negative della Procura, soltanto una modifica legislativa potrebbe estendere l’uso del Trojan ad altri reati, tra cui la corruzione. E la sede potrebbe essere, appunto, il ddl delega sulle intercettazioni all'esame del Senato (già approvato dalla Camera).

Certo è che questa nuova frontiera delle intercettazioni ripropone ancora di più il problema del bilanciamento con la privacy, e quindi della selezione del materiale non rilevante e dei limiti di pubblicazione.

La posizione restrittiva scelta dalla Procura generale è in chiave rigorosamente garantista, cioè di una netta distinzione in funzione dei reati perseguiti. Una sorta di doppio binario, insomma.

Il problema nasce perché il Trojan è un’intercettazione ubiqua: chi porta con sé l’apparecchio in cui è stato inoculato il virus può infatti essere ascoltato (persino videoregistrato) ovunque, non solo nel suo domicilio privato ma anche in quello di altre persone. Il che produce altrettante intercettazioni domiciliari, vietate dalla legge a meno che, in quei luoghi, non sia in atto un’attività criminosa. L’unica eccezione è contenuta nell’articolo 13 del dl 152 del 1991 (contro la criminalità organizzata) che, nel bilanciare privacy e sicurezza, ha ritenuto di dover limitare la prima in considerazione dell’eccezionale gravità e pericolosità dei reati di criminalità organizzata. È sulla base di questa norma, ma anche di quelle costituzionali e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo come interpretate dalla Corte di Strasburgo, che la Procura giustifica il Trojan: la minaccia delle mafie e del terrorismo per la vita e le libertà delle persone, e per la sicurezza collettiva, rende necessario il ricorso ai virus informatici, sia pure regolato in modo da evitare l’uso di risultanze lesive della persona e della sua dignità. Perciò non è necessario che il decreto di autorizzazione delle intercettazioni individui i luoghi in cui dovranno essere effettuate.

Detto questo, la Procura si ferma. L’eccezione prevista per i delitti di criminalità organizzata non può valere per altri reati, per i quali il rischio – legato all’uso del Trojan - di intercettazioni domiciliari multiple è troppo alto e incompatibile con le norme vigenti, oltre che con uno Stato di diritto. Né sembra che la Procura condivida la soluzione ipotizzata per questi casi dalla VI sezione penale, e cioè, sì al Trojan ma il materiale captato nei luoghi di privata dimora in cui non sia in corso un’attività criminosa va dichiarato inutilizzabile. Un rimedio che secondo la Procura non può essere usato per riequilibrare gli effetti di una prassi che finirebbe con l’essere in sistematico contrasto con la legge. Tra l’altro, si riproporrebbe più che mai il problema della divulgazione delle intercettazioni prima che siano dichiarate inutilizzabili, con l’aggravante di avere un materiale smisurato e quindi un rischio più elevato di diffusione. Ma spetterà alle sezioni unite decidere se dare o meno agli investigatori l’arma del Trojan anche per i reati comuni, seppure gravi come la corruzione. Che ormai da decenni è un’emergenza pari a quella della criminalità organizzata.

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