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Le armi improprie di un’economia di Stato

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Le armi improprie di un’economia di Stato

È scontro campale in Europa sul riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato. La crisi dell’acciaio, la peggiore degli ultimi 50 anni, è solo la vittima più illustre della concorrenza sleale di un colosso che non solo è invece un’economia di Stato ma continua a usare armi improprie per farsi largo sui mercati del mondo intero: dalle massicce sovvenzioni pubbliche che ne hanno moltiplicato le sovraccapacità produttive in quasi tutto il manifatturiero (alluminio, semiconduttori, componenti auto, biciclette, ceramica, vetro e carta) all’export a prezzi stracciati che dovunque mette in ginocchio la concorrenza.

«Non sarà una decisione europea come tutte le altre. Questa è la madre di tutte le questioni commerciali, deciderà se l'industria avrà un futuro o se sarà costantemente costretta a convivere con prezzi depressi e margini impossibili» riassume un diplomatico europeo. Tra tutti i Paesi dell’Unione, l’Italia sarà la più penalizzata, interi comparti produttivi potrebbero sparire secondo diversi studi Ue.

«Per essere libero il commercio dovrebbe essere giusto e ripudiare le pratiche commerciali scorrette». Jean-Claude Juncker è lapidario. Ma se il presidente della Commissione ha le idee chiare, il collegio è diviso. Come i governi, con la Germania, il Paese più influente, che è bifronte nei confronti del convitato di pietra cinese, con cui intesse legami commerciali e industriali sempre più stretti che inevitabilmente condizionano le sue scelte europee. Ed è appoggiata dagli inglesi e dal fronte del nord. Contro sono schierati Italia, Francia, Polonia, diversi Paesi dell’Est e quelli dell’arco mediterraneo.

La data fatidica sarà l’11 dicembre prossimo, quando si saprà se l’Europa deciderà di regalare a Pechino uno status oggi ingiustificato (Mes in gergo) oppure se rimanderà la scelta o la condizionerà pesantemente. I giuristi restano divisi sulla legittimità di un riconoscimento automatico alla luce degli accordi Wto del 2001, che aprirono alla Cina le porte dell’Organizzazione mondiale del commercio. La decisione ha avuto un impatto sconvolgente sugli equilibri economici mondiali. E sull’industria europea.

Oggi, 15 anni dopo, si paventa un secondo terremoto, ancora più devastante, se da fine anno la Cina dovesse essere considerata un’economia “normale”. Secondo le regole della Wto il nuovo status comporterebbe di fatto il disarmo dei concorrenti commerciali. Con l’inversione dell'onere della prova nelle inchieste anti-dumping: sarebbe infatti la Cina a produrre i dati per costruirle, in breve diventerebbe più difficile provarne le pratiche sleali. Visti la pesante sovraccapacità produttiva accumulata, il rallentamento economico in atto e lo sviluppo futuro ormai puntato su servizi, Pechino potrebbe trovare in Europa la provvidenziale valvola di sfogo dei suoi surplus industriali.

Gli Stati Uniti non hanno dubbi: la risposta è no. In attesa di un eventuale ricorso della Cina alla Wto, nel quale però sarà essa stessa a dover provare di essere un’economia di mercato. Ci vorranno due anni per il verdetto: tutto tempo guadagnato. Gli europei invece restano spaccati, anche se il dramma siderurgico sta scardinando alcune certezze. «Abbiamo già fatto più che abbastanza, che cosa dovremmo fare di più?» ha tagliato corto il portavoce del ministro del Commercio cinese alla recente ministeriale di Bruxelles, che ha riunito 30 Paesi Ocse per cercare, invano, una soluzione all’emergenza acciaio.

Ovviamente la Cina insiste sui 90 milioni di tonnellate di capacità che ha già tagliato e dovrebbero salire di altri 150-200 milioni. Ma anche così, la potenziale produzione del Paese risulterebbe di 1,1 miliardi di tonnellate l’anno nel 2020, con un fabbisogno interno di circa 700 milioni. Non solo. C’è chi sospetta che i tagli riflettano essenzialmente il processo di sostituzione di vecchi impianti con nuovi più efficienti. Insomma, un abile gioco degli specchi. Intanto in marzo in Cina i prezzi sono saliti del 42%, gli impianti chiusi sono ripartiti e l’export è aumentato del 30%. In barba ai molti dazi anti-dumping in vigore. Le inchieste aperte a Bruxelles non ne imporranno di nuovi prima di novembre.

In Europa il quadro è opposto: crollati del 30% nel 2015, i prezzi potrebbero perdere quest’anno un altro 10%. Nel 2015, secondo la World Steel Association, la produzione in Francia è scesa del 7,3%, in Italia del 6,1%, in Gran Bretagna del 17,4%. Dal 2008 il settore ha perso il 20% degli occupati, 92mila addetti. Ma il peggio potrebbe ancora venire: nel mondo, dicono le stime Ocse, un terzo degli impianti è fermo e la quota continua ad allargarsi. La riforma degli Ets per la de-carbonizzazione dello sviluppo potrebbe poi rincarare gli handicap competitivi, teme l’industria europea. In Inghilterra Tata Steel, il maggior produttore, ha deciso di mettere in vendita alcuni impianti. Quello di Port Talbot, 4mila lavoratori, perde 1 milione al giorno «per colpa del dumping cinese» è la giustificazione ufficiale. In realtà, nella crisi della siderurgia pesa anche il crollo dei prezzi del petrolio, il conseguente impatto sulla domanda di tubi e la ripresa economica che resta incerta e fragile.

Non a caso si parla di ristrutturazioni. «Ci vogliono campioni europei in grado di competere con i colossi mondiali, nuove regole sulla concorrenza e il rafforzamento degli strumenti di difesa commerciale» avverte Antonio Tajani, ex commissario Ue all’Industria e ora vicepresidente dell’europarlamento. Nell’aria c’è la possibile fusione tra Tata e Thyssen-Krupp, il n. 1 tedesco. L’ipotesi ha visto scendere in piazza in Germania 45mila lavoratori mobilitati dal sindacato Ig-Metall in difesa dei posti di lavoro. «Non abbiamo niente contro il riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato, purché si comporti come tale» ha tuonato Sigmar Gabriel, Spd, l’attuale ministro dell'Economia.

Appunto. Ma è difficile farlo per un’economia dirigista di Stato. L’ambiguità della Germania è il problema perché, sottolinea Massimiliano Salini, eurodeputato Ppe, «sta spostando il baricentro della sua manifattura in Cina, con evidenti rischi per l’Italia, secondo produttore Ue». L’allarme del suo collega socialista, Sergio Cofferati, è anche più netto: «L’acciaio Ilva deve restare italiano perché non è vero che il settore è maturo: l’innovazione tecnologica altera questi parametri e per questo non deve migrare altrove. Non è protezionismo ma presidio del nostro sviluppo futuro».

Sull’altare della siderurgia in pericolo, persino Londra è disposta a sacrificare l’eterno ultra-liberismo, anche se non vuole perdere il ruolo di off-shore cinese in Europa. Pechino punta sui conflitti interni dell’Europa. Chi le si oppone con in testa Italia e Francia, scommette invece proprio sul grimaldello siderurgico per strappare il rafforzamento degli strumenti europei di difesa commerciale e rinviare l’ingiustificato regalo alla Cina del Mes. «L’Europa è stata ingenua, la più negligente di tutti con il dumping cinese e ne paga le conseguenze», spiega Mario Longhi, ceo di Us Steel. Che suggerisce agli europei di seguire le orme americane: niente Mes e una legge che faciliti la prova dei danni da dumping e imponga dazi salati, 250% e oltre. Funziona, dice, non è protezionismo ma il modo giusto per far rispettare le regole garantendo l’equità degli scambi. C’è da battersi e sperare che l’Europa segua il consiglio.

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