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Dire addio all’Europa dei piccoli compromessi

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riforme e sovranità

Dire addio all’Europa dei piccoli compromessi

Non che fino a ieri fosse vestita da capo a piedi, anzi. Ma oggi la Regina-Europa appare davvero nuda. A spogliarla non sono stati un brillante polemista o un politico a caccia di notorietà e voti. No, l’autore di questa operazione-verità è il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, che nel suo breve viaggio italiano ha scattato una foto impietosa ma realistica della condizione di quest’Europa in affanno. E senza nascondere ciò che divide Roma da Berlino, mentre al Brennero l’Austria prospetta un’inaccettabile svolta sui migranti e si riapre il caso del salvataggio della Grecia.

Di questa franchezza, a maggior ragione se il principale azionista della Banca centrale europea ne trarrà tutte le conseguenze, si deve essere grati a Weidmann. L’Europa, per cominciare, è meglio vederla per quella che è, incompiuta e senza alcuna voglia di completarsi nel senso di una «vera unione fiscale» con tanto di ministero comune per l’area euro. Che sarebbe il grande passo in avanti dalla nascita dell’euro.

Peccato che, a ben vedere, nessuno lo desideri, questo passo. Né l’Italia né la Germania, ammette Weidmann. Lassisti o rigoristi che siano, per semplificare, tutti i Paesi non intendono rinunciare a questa quota di sovranità nazionale. Infatti il presidente della banca centrale tedesca vede «enormi ostacoli» perché bisognerebbe modificare i Trattati europei e procedere ai referendum negli Stati membri. Il che, aggiungiamo, sarebbe la via maestra, ma sappiamo che la popolarità dell’Europa è ai minimi termini e che il suo deficit democratico non è una fastidiosa invenzione del populismo rampante. Basta ricordare che quando si provò a legittimare, attraverso i referendum popolari, il Trattato di Lisbona che rafforzava i poteri di Bruxelles, i primi “no” portarono ben presto all’evaporazione del tentativo.

Scartata l’ipotesi dell’unione fiscale non restano che gli impegni del Patto di Maastricht ed i successivi regolamenti per «attribuire agli Stati membri – come sostiene Weidmann – le responsabilità delle proprie azioni».

Ma anche sotto questo profilo, e prima ancora di addentrarsi tra il sì e il no che divide Berlino da Roma sull’idea di imporre un tetto e una ponderazione dei rischi sui titoli di stato in possesso delle banche, va constatato che la rete del Patto è stata bucata a più riprese (Germania compresa). E che l’interpretazione a senso unico delle politiche di austerity (fortemente spinta da Berlino) ha finito per approfondire la frenata recessiva, come dimostra la vicenda italiana. Cosicché, su pressione dei governi – e quello di Matteo Renzi è stato in prima in linea – la Commissione europea ha via via aperto spiragli e finestre (leggasi la partita della flessibilità).

Anche qui il presidente della Bundesbank coglie un punto di verità, quando osserva che la Commissione «si trova in una situazione di conflittualità degli obiettivi» dovendo agire come garante dei Trattati e delle regole e come istituzione politica «chiamata a mediare tra gli interessi più diversi». Ma in questo modo è costretta «continuamente a scendere a compromessi a danno del rispetto di bilancio». Un’erosione silenziosa che allunga i tempi di rientro dal deficit e rinvia, anno dopo anno, il pareggio di bilancio strutturale (che è tale se inferiore allo 0,5% del Pil). Per l’Italia, ad esempio, questo era calendarizzato per il 2015, ma slittando-slittando è previsto oggi per il 2019. Mentre la Francia (altro che pareggio!) viaggia quasi sempre sopra il tetto del 3% del deficit in rapporto al Pil.

Che fare? Weidmann propone «un’autorità fiscale europea» in alternativa alla Commissione. E partendo da un dato difficilmente confutabile («non c’è crescita sostenibile se non si abbatte il debito pubblico») spende anche parole non di circostanza sullo sviluppo delle imprese, in particolare quelle piccole e innovative. Di più. «Una prospera economia di mercato, che è innovativa e registra una elevata crescita della produttivit à – dice – ha bisogno di una forte competitività. Ecco perché è importante eliminare i limiti burocratici alla costituzione delle imprese. Tali limiti esistono in molti Stati europei e sono piuttosto elevati. Ciò riguarda tra l’altro in particolare la Germania. Per questo il mercato comune europeo va ampliato anche ai prodotti digitali. Dagli attuali 28 mercati digitali – conclude Weidmann – «l’Europa deve finalmente istituire un mercato digitale europeo comune».

Non c’è dubbio sul fatto che quest’Europa in affanno, e fin qui sorretta con mano ferma dalla politica monetaria innovativa della Bce di Mario Draghi, debba alzare il livello della sua sfida uscendo dalla penombra dei compromessi grandi e piccoli. Se vuole evitare la disintegrazione, l’Europa deve riprendere in mano il dossier che mira al 20% di Pil legato al settore manifatturiero entro il 2020, e deve evitare il riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato (sul quale Berlino oscilla pericolosamente). Questi possono essere due punti d’attacco di un’Europa non più ripiegata su se stessa. Germania e Italia, non va dimenticato, sono le prime due potenze industriali del Continente. E anche il presidente della Bundesbank, così come ha fatto difendendo le scelte di Draghi, può dare più di una mano.

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