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L'Europa si mobiliti contro la Cina statalista

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IL VOTO A STRASBURGO

L'Europa si mobiliti contro la Cina statalista

Non accade spesso ma questa volta l'europarlamento può incidere davvero sul corso della storia e sul futuro dell'industria e del benessere europeo, ricordando in modo forte e chiaro a Commissione e Consiglio Ue come stanno davvero le cose: la Cina non è un'economia di mercato, è ancora un'economia dirigista, centralizzata e sovvenzionata, dove lo Stato fissa il livello di prezzi, costi, produzione e export delle imprese prescindendo dai segnali di mercato, cioè dalle normali leggi della domanda e dell'offerta. Non solo. Tuttora Pechino, sottolinea l'assemblea, rispetta soltanto 1 dei 5 criteri fissati nel 2008 da Bruxelles per poterne accogliere la rivendicazione.

ll voto di oggi a Strasburgo, salvo improbabili sorprese, finirà con la sonora bocciatura del riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato (Mes), grazie alla inedita “santa alleanza” tra popolari, socialisti, conservatori, liberali e verdi, che hanno la maggioranza schiacciante. Sarà il punto di svolta, un'indubbia vittoria della diplomazia italiana e francese, lo spartiacque di un nuovo corso animato da un'Europa più decisa e responsabile, meno remissiva nel dialogo con l'altro colosso del commercio mondiale.
L'europarlamento metterà infatti sul piatto della bilancia, sia pure approvando una risoluzione non vincolante, tutto il peso politico dell'istituzione. L'inusitata concordia parlamentare tra piccoli e grandi Paesi, ricchi e poveri, nord-sud, est-ovest, liberisti e protezionisti, produttori e consumatori, difficilmente potrà essere ignorata da Bruxelles ma soprattutto dai governi Ue che hanno in mano la chiave della decisione finale.
Oggi, del resto, nessuno tra i Grandi dell'economia e del commercio mondiale, dagli Stati Uniti al Canada, dal Giappone all'India fino al Messico, riconosce alla Cina il Mes. Solo l'Europa tentenna, pur essendo quella che più degli altri ha sperimentato sulla propria pelle i morsi della concorrenza sleale cinese, l'invasione sui propri mercati di prodotti a prezzi stracciati.

Due dati per tutti: 56 delle 73 misure antidumping in vigore nell'Ue si applicano a Pechino, che è parte in causa per gli stessi motivi in 28 delle 38 inchieste in corso a Bruxelles.
Il disastro della siderurgia, l'Europa è il secondo produttore mondiale con 166 milioni di tonnellate, la Cina il primo con 803 milioni, è forse l'esempio più agghiacciante del futuro che potrebbe attendere l'intera manifattura del continente. Complice la sovracapacità produttiva di Pechino, 200 milioni di tonnellate nonostante un export di 112 milioni nel 2015, l'acciaio Ue ha subito l'anno scorso il crollo del 30% dei prezzi, cui quest'anno potrebbe aggiungersi un ulteriore 10%, la forte caduta della produzione in Italia, Francia e Gran Bretagna, la perdita dal 2008 a oggi di 92mila addetti, il 20% degli occupati.
Ma i surplus cinesi da smaltire sui mercati esteri non si fermano qui: investono altri settori sensibili, alluminio, semiconduttori, parti di ricambio auto, biciclette, ceramica, vetro, carta. E, con la seconda industria manifatturiera dell'Unione, l'Italia, concordano tutti gli studi, sarebbe la più taglieggiata dal Mes, con abnormi perdite di posti di lavoro.
In un'Europa dalla ripresa debole, tormentata da un tasso di disoccupazione elevato, con un'economia incapace di ritrovare una crescita robusta, indispensabile tra l'altro per rendere sostenibili i debiti pubblici, l'apertura intempestiva e incondizionata a una Cina, che continua a non giocare sul mercato globale secondo le regole della Wto, sarebbe comunque contraria all'interesse collettivo, la mazzata finale accuratamente da evitare.
A fatica, per gradi, l'europarlamento se ne è convinto tanto da chiamare alla mobilitazione quasi generale. Anche se oggi, come si spera, ci sarà un voto a schiacciante maggioranza , la battaglia per fermare o più probabilmente annacquare il Mes resterà comunque aperta. In attesa della decisione finale dei governi, che dovrà arrivare entro l'11 dicembre, la data fissata nel 2001 dalla Wto. La scadenza secondo Pechino sarebbe pura formalità, lo status di economia di mercato dovrebbe esserle riconosciuto automaticamente. Non è così per gli Stati Uniti e gli altri Grandi che preferiscono provocare un ricorso cinese alla Wto, per guadagnare qualche anno in attesa del verdetto.

L'Europa dei governi, Germania e Gran Bretagna in testa, resta invece combattuta tra l'ansia di business e investimenti in Cina e dalla Cina e l'esigenza di evitare un disarmo unilaterale, dannoso per tutti ma soprattutto per la tenuta del progetto europeo. Nell'era delle multi-crisi e delle troppe e crescenti divergenze intra-Ue, manca giusto la desertificazione industriale programmata per mandarlo definitivamente al tappeto. Il pericolo non è sventato ma ora il buon senso alza la voce. Buon segno.

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