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La pagella di Bruxelles e la scossa che serve

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l’analisi

La pagella di Bruxelles e la scossa che serve

I toni del confronto, che resta serrato sia sul piano tecnico che su quello politico - come mostrano gli scambi di lettere tra Roma e Bruxelles - non sono questa volta da «promossi o bocciati», oppure da Italia di nuovo «sorvegliata speciale» e sul banco degli imputati. Il deficit è ampiamente sotto il 3% e l'Italia è tra i pochi Paesi europei a poter vantare un consistente avanzo primario, vale a dire il saldo di bilancio al netto degli interessi.

Pur tuttavia, il giudizio finale sui conti pubblici, sulla legge di Stabilità 2016 e sulla flessibilità che ne è parte integrante (lo 0,8% del Pil), atteso per dopodomani nella capitale belga, non è evento da derubricare tra gli affari correnti. Pesa, in primis, la previsione della Commissione Ue, contenuta nelle stime primaverili dello scorso 3 maggio, relativamente al debito pubblico, fonte di persistente vulnerabilità del nostro Paese. Nel 2016 – sentenzia Bruxelles – il debito resterà fermo al 132,7% del Pil, lo stesso livello del 2015. Nessuna discesa, come prevede invece il Governo, che con il Def trasmesso il mese scorso a Bruxelles fissa l'asticella al 132,4 per cento. Tre decimali di differenza – si potrebbe obiettare – non giustificano reprimende di sorta o inviti a draconiane manovre correttive. Il punto è che la discesa del debito compare a giusto titolo tra i più cogenti impegni programmatici del Governo, un segnale non da poco dopo sette anni di aumento ininterrotto. Non rispettarlo equivale a un implicito arretramento, l'ammissione di una persistente difficoltà, se non impotenza ad aggredire il vero macigno della nostra economia. Basterà dismettere un'ulteriore tranche di Poste italiane?

Certo non mancano le circostanze attenuanti, come viene ribadito nella lettera inviata il 9 maggio dal ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, al vice presidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, e al commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici. Tra questi la persistente bassa inflazione e un andamento del ciclo economico internazionale che rende complesso il conseguimento del target di crescita su cui si basa l'intero quadro di finanza pubblica: l'1,2% mentre gli ultimi dati Istat registrano un incremento dello 0,3% nel primo trimestre e una variazione acquisita sull'intero 2016 dello 0,6 per cento.

Ha ragione Padoan quando ricorda come la via maestra per avviare la traiettoria del debito su un sentiero di progressiva discesa sia agire sul denominatore, il Pil. Più crescita, meno debito. E allora, eccoci al vero punto nodale del confronto con la Commissione Ue: nel giudizio di mercoledì si darà o meno credito a un Paese che sta provando a ripartire, anche sulla base di riforme strutturali giudicate positivamente anche da Bruxelles e da Berlino, come la riforma del mercato del lavoro? Se la trattativa si sposta su questo piano, è chiaro che il giudizio di dopodomani sarà prima di tutto “politico”. Sì, perché, se prevalesse una lettura ortodossa e dunque rigorista dell'attuale disciplina di bilancio europea, saremmo spediti direttamente in procedura d'infrazione per violazione della regola del debito, che impone di ridurre il passivo di almeno un ventesimo l'anno. Con quali conseguenze? Serie e gravi, perché saremmo costretti a manovre correttive per loro natura depressive del ciclo economico e usciremmo dal braccio preventivo del Patto di stabilità, perdendo con ciò la possibilità di fruire dei margini di flessibilità che continuiamo a invocare (nel 2017 è previsto che il deficit nominale salga all'1,8% del Pil, contro l'1,1% del quadro tendenziale). Si contrappongono nel collegio dei commissari le tesi rigoriste di chi invoca sic et simpliciter il rispetto delle regole e di chi, al contrario, si appella alla semplice ragionevolezza e alla par condicio. La Francia è forse in procedura d'infrazione perché continua a infrangere il tetto del 3% nel rapporto deficit/pil (3,5% nel 2015 e 3,4% nel 2016)? E la Germania lo è, perché continua a esibire un persistente, eccessivo surplus della propria bilancia commerciale? Le regole vanno interpretate e adattate ai tempi che mutano.

Non per questo, se - come sembra - mercoledì sarà via libera ai conti pubblici italiani accompagnati dalla puntuale raccomandazione a ridurre il debito, potremo ritenerci esenti dal rispettare gli impegni assunti. Gli errori li abbiamo già commessi negli anni Ottanta, consegnando alle future generazioni il raddoppio del debito pubblico. Ben al di là delle pagelle e dei richiami di Bruxelles, è un dovere che spetta oggi a chi governa il Paese e al Parlamento che è chiamato a condividerne o a rigettarne le proposte. Non più il «vincolo esterno», ma è il «vincolo interno» a dover prevalere. Come? Certo con scelte di politica economica in grado di spingere il pedale sulla domanda aggregata, strada difficile da perseguire, ma fondamentale quanto meno per compensare il rallentamento dell'economia globale. E al tempo stesso con un'accorta riqualificazione della spesa pubblica e con un drastico cambio di marcia sul fronte della corruzione e dell'evasione fiscale.

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