Anthony Atkinson è probabilmente il massimo esperto mondiale di disuguaglianza. È facile capire, quindi, con quanta curiosità e trepidazione aspettassimo l'uscita del suo ultimo libro sulla disuguaglianza, annunciato per questo mese di aprile presso Harvard University Press (ed ora in traduzione da Raffaello Cortina). Ed eccoci qua, il libro è finalmente uscito, e si affianca idealmente agli altri due fondamentali libri sulla diseguaglianza pubblicati negli ultimi due anni: “Il prezzo della disuguaglianza”, del premio Nobel Joseph Stiglitz (Einaudi 2013) e il celebratissimo “Il capitale nel XXI secolo”, di Thomas Piketty (Bompiani 2014).
È un bel libro, quello di Atkinson. Probabilmente è il tentativo più serio, ricco e articolato di progettare un percorso di riduzione delle diseguaglianze. Per certi versi è anche una delle proposte più originali (almeno nel campo degli economisti di sinistra), nella misura in cui non punta tutte le proprie carte sulla solita ricetta di imporre nuove tasse ai ricchi.
E tuttavia c'è un aspetto del suo lavoro che mi ha lasciato profondamente perplesso, per non dire deluso, vista la mia stima per Atkinson. Potrei definirlo come la contaminazione fra descrizione e prescrizione, fra analisi e proposta. Ma gli inglesi hanno un modo più poetico per descrivere tale fenomeno: lo chiamano “cherry picking”, ossia scegliersi i dati (le “ciliegie”) che fanno più comodo, trascurando quelli che danno fastidio.
Vediamo che cosa è successo. Circa il 70% del libro di Atkinson è dedicato a formulare proposte, un campo nel quale ovviamente contano i dati e le teorie, ma contano di più i valori e le preferenze politiche. Niente da dire su questo, Atkinson ha tutto il diritto di essere preoccupato per il livello eccessivo della diseguaglianza, e fa benissimo a proporre dei mezzi per ridurla. Dove cominciano i problemi è nel restante 30% del libro, nel quale Atkinson cerca di dare un supporto empirico alla propria analisi, e lo fa descrivendo la diseguaglianza e la sua evoluzione.
Qui il libro non mi è piaciuto, non solo perché mescola descrizione e prescrizione (in violazione del “principio di Hume”, per cui è vano cercare di dedurre il dover essere dall'essere), ma perché la descrizione che propone è gravemente distorta.
Faccio un esempio, il più importante. Atkinson comincia, onestamente, con il dichiarare che la disuguaglianza non è cresciuta ovunque, e che per affermare che c'è stato un cambiamento apprezzabile occorre fissare una soglia, che a suo parere potrebbe essere pari a 3 punti-Gini. Se in un Paese la diseguaglianza passa da 33 punti-Gini a 34 il cambiamento non è “saliente”, se passa da 33 a 37 lo è. Fin qui è tutto ragionevole.
Quando poi, però, si tratta di stabilire le tendenze effettive della diseguaglianza nelle società avanzate (l'oggetto privilegiato del libro), inizia l'operazione di cherry picking. Che in casi come questo si può fare in due modi: o selezionando i Paesi, o scegliendo gli anni da confrontare. Ebbene, Atkinson li adotta entrambi: lavora su un database con pochi Paesi avanzati (17 su 34), e ne usa 12; potrebbe scegliere come termine di paragone qualsiasi periodo passato (ad esempio gli anni '60, o gli anni '80, o gli anni '90), ma sceglie invece un singolo anno, e precisamente quello (il 1980) in cui la diseguaglianza nelle società occidentali aveva toccato un minimo. Ne risulta il grafico a fianco, in cui – come si può vedere – un solo Paese (la Francia) mostra una diminuzione della diseguaglianza, mentre tutti gli altri mostrano aumenti significativi. Ciò gli consente di mostrare che nella maggior parte dei Paesi l'aumento della diseguaglianza è maggiore del 3%, ovvero è saliente.
Ma che cosa sarebbe successo se Atkinson avesse usato i dati di un database più ricco, come il database standardizzato Swiid, su cui ha lavorato la Fondazione David Hume? La risposta è nel grafico qui a fianco, che riporta anche i Paesi Ocse trascurati da Atkinson ma presenti nel database Swiid. In questo caso ci sono 7 Paesi su 29 in cui la disuguaglianza diminuisce, mentre i Paesi in cui aumenta più del 3% sono meno della metà (12 su 29). Anche aggregando i Paesi, e pesandoli per la popolazione, il risultato non va nella direzione suggerita da Atkinson: la variazione media è +5.2 per i Paesi selezionati da Atkinson, ma scende a +2.7 (sotto la soglia del 3%) per l'insieme dei Paesi. E non è tutto. Se, anziché chiederci come sono andate le cose rispetto all'anno di diseguaglianza minima (1980), ci chiediamo quali sono le tendenze dominanti nel XXI secolo, la risposta diventa salomonica: in circa metà dei Paesi avanzati la diseguaglianza interna è cresciuta, nell'altra metà è a diminuita, ma se proprio si vuole stabilire un verso, è la tendenza alla diminuzione che prevale, sia pure di pochissimo. Che dire? Alle volte la passione civile giuoca degli strani tiri …
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