Un esercito di nove milioni di “outsider”: con la definizione di “Terza società”, il dossier sulla Disuguaglianza economica stima un nuovo livello sociale al quale si può ricondurre «poco meno del 30% delle forze di lavoro allargate».
Da una parte resiste il concetto di Prima società, rappresentata dai lavoratori garantiti, tipicamente i dipendenti pubblici e i dipendenti privati permanenti delle grandi aziende. Uno strato a forte rappresentanza politico-sindacale, con una serie di diritti acquisiti nel tempo e pressoché immutati.
Quella definibile come Seconda società è invece quella di soggetti più esposti al rischio, le piccole imprese, i loro addetti, e i lavoratori autonomi, rappresentati dalle associazioni datoriali. Sono “senza rete”, infine, i soggetti della Terza società, il microcosmo degli “esclusi” o “outsider”. Vi possono rientrare coloro che lavorano in nero (spesso immigrati), quindi senza alcuna garanzia, ma anche i disoccupati che cercano attivamente un'occupazione e i lavoratori scoraggiati che il lavoro non lo cercano perché non confidano di trovarlo (i cosiddetti “scoraggiati”). Tra loro spiccano i giovani e le donne, che appaiono destinati ad «essere i principali cittadini di questa Terza società».
Tre grandi categorie che tuttavia non sono tra loro incompatibili, in quanto tra le differenti condizioni esistono margini di sovrapposizione. Fatta questa precisazione, la stima relativa al 2014 è di 9 milioni di “esclusi” con quasi 3,2 milioni di occupati in nero (36% del totale), 2,9 milioni di inattivi disponibili a lavorare ma senza un impiego irregolare (32,6%) e 2,8 milioni di disoccupati “veri” (31%).
L'andamento con la crisi
Dal 2006, anno di minimo dell'ultimo decennio, la platea degli esclusi è aumentata di poco meno di 1,9 milioni di persone (+26,8%) ed è cresciuto parallelamente il peso sulle forze di lavoro allargate (dal 24,7 al 29,7%).Come intuibile , l'indicatore della Terza società ha un andamento anticiclico, con l'aumento del numero e del peso degli esclusi durante la recessione e il calo nei periodi di espansione. Ma va sottolineato come questo andamento sia principalmente causato dalla disoccupazione e secondariamente dagli inattivi disponibili, il cui trend è decisamente meno uniforme. Al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, invece, il lavoro nero risulta in calo costante, perché l'effetto delle misure di contrasto alla cosiddetta “shadow economy” sembra essere prevalente rispetto a una certa tendenza a ricorrere al sommerso per compensare la crisi.
Il peso nel Mezzogiorno
Oltre la metà dei “cittadini” della terza società, pari a 4,7 milioni, vivono nel Mezzogiorno. Un ulteriore elemento ad aggravare il divario rispetto al Nord. E anche basandosi sul peso rispetto alla popolazione attiva, spicca una netta differenza con un'incidenza del Mezzogiorno del 46,7%. Ma va fatta una ulteriore distinzione. In linea generale, la Terza società si espande in tutte le ripartizioni e questa crescita è maggiore dove si è fatta sentire di più la crisi dei settori produttivi, quindi Nord-Est e Nord-Ovest. Ma a determinare lo squilibrio finale sul Mezzogiorno è la differente riduzione del lavoro nero, che al Sud si è limitata al 7,7% tra 207 e 2014, mentre nelle altre ripartizioni sfiora il 20%.
Il confronto internazionale
Il rapporto prova a comparare l'incidenza della terza società in Italia a quella degli altri Paesi Ocse più i Paesi della Ue non Ocse. Si può concludere che il peso della società degli esclusi in Italia (28,8%) sia il quinto più elevato e notevolmente più alto rispetto alla media Ocse (17,2%) e Ue (20,2%). Nel confronto internazionale, a colpire è come il fenomeno caratterizzi con misure più accentuate ancora una volta il Sud, sebbene in questo caso si parli di Europa del Sud. Perché nella graduatoria a precederci sono quattro Paesi con valori superiori al 30% (Grecia, Croazia, Spagna, Bulgaria), di cui due Ocse (Spagna e Grecia).
Si può aggiungere che cinque dei primi sei Paesi appartengono al sud Europa e sono proprio quelli nei quali è più evidente la penalizzazione di giovani e donne nel mercato del lavoro. Paesi, in altre parole, dove è più elevato quello che viene definito “indice di carico” dei segmenti deboli, ossia il rapporto tra giovani (20-34 anni) non occupati più donne adulte (35-64 anni) non occupate diviso il numero degli occupati maschi tra 20 e 64 anni. Dal 2008, con la crisi, l'aumento di questo indice ha contraddistinto quasi tutti i Paesi, con l'esclusione della Germania.
L'Italia aveva fatto registrare miglioramenti significativi tra il 1996 e il 2008, per poi inabissarsi con la crisi, soprattutto per la penalizzazione dei giovani. In altre parole, tra il 2008 e il 2013 l'Italia ha perso la metà di quanto guadagnato nei 13 anni di convergenza e oggi la distanza dalla media Ocse è tornata ad essere di quasi 30 punti.
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