La Federal Reserve, banca centrale americana, dal novembre 2008 al 2014 ha stampato 3.600 miliardi di dollari per sostenere l'economia Usa dopo il crack di Lehman Brothers. La Casa Bianca ha inoltre messo sul piatto circa 2mila miliardi di dollari (dato R&S Mediobanca) solo per salvare le banche in crisi: uno sforzo immenso, che sommato a tutti gli altri aiuti statali all'economia, ha fatto aumentare il debito pubblico sul Pil statunitense dal 72% del 2008 al 104,7% del 2014 (dato Fmi). Tra banca centrale e Governo, insomma, l'intervento per far resuscitare un'economia che nel 2008 sembrava sull'orlo del collasso è stato di molte migliaia di miliardi di dollari.
A prima vista Keynes potrebbe dirsi soddisfatto: questo enorme utilizzo di risorse pubbliche ha senza dubbio fatto ripartire la più importante economia del Pianeta. Dal 2008 ad oggi il Pil Usa è infatti cresciuto del 21,8%. E il tasso di disoccupazione, che era salito al 10% nell'ottobre 2009, è ora tornato al 5,5%. Peccato che questa ripresa non stia portando benessere in maniera equa per tutti i cittadini americani: sebbene mediamente le diseguaglianze nella società Usa risultino stabili (secondo l'indice Gini), i super-ricchi diventano infatti sempre più ricchi e i super-poveri sempre più poveri. E, paradossalmente, questo accade proprio come conseguenza delle politiche di matrice keynesiana.
I super-ricchi crescono
I dati sulle diseguaglianze negli Stati Uniti raccolti dalla Fondazione David Hume, uniti ad altri indicatori, raccontano con lucidità cosa sia accaduto nella società americana in questi anni di «denaro facile» e di intervento pubblico nell'economia. Da un lato il tasso di diseguaglianza in territorio americano è rimasto sui massimi storici ma stabile: dal 2009 (primo anno di quantitative easing Usa) a fine 2012 (ultimo dato disponibile) l'indice Gini segnala che la “forbice” sociale è passata da 37,41 a 37,40. Si tratta di un indicatore che misura le diseguaglianze all'interno di una società, che va da zero (se sono tutti uguali) a 100. Ebbene: la società americana nel suo complesso non è peggiorata. Si tratta pur sempre di un livello intorno ai massimi storici, se si pensa che nel 1979 il tasso era a 29,9. Però, rispetto al record del 2007 (37,8), gli anni della crisi hanno lievemente ridotto la media.
Ma questa, come detto, è una media. Se si analizzano i dati più in profondità, invece, si vede che le grandi manovre della Fed e del Governo Usa hanno nella realtà allargato la forbice sociale. Il reddito dei super-ricchi (cioè l'1% della popolazione) è infatti aumentato sensibilmente: questa parte della popolazione deteneva nel 2009 il 16,68% del reddito statunitense e a fine 2013 il 17,54%. E il 10% più agiato della popolazione ha guadagnato ancora di più: se nel 2009 aveva il 45,47% della ricchezza Usa, nel 2013 la percentuale è salita al 47.01%. Secondo questi dati (della World Top Incomes Database) mai la parte più “fortunata” della popolazione americana era stata così piena di soldi: neppure negli anni '30. Guardando l'altra faccia della medaglia, si può dire lo stesso della parte più povera. Nel 2013 negli Usa c'erano (secondo il Census Bureau) 45,3 milioni di persone povere: numero in lieve calo rispetto al 2012, ma in crescita rispetto ai 43,5 milioni del 2009 e ai 39,8 milioni del 2008. Mai, fino al 2009, i poveri avevano superato i 40 milioni.
Altri dati confermano l'aumento delle diseguaglianze negli ultimissimi anni, con solo una minima retromarcia nel 2013. Il bollettino della stessa Fed del settembre 2014, che misura la variazione della ricchezza tra il 2010 e il 2013, dimostra come il reddito mediano delle famiglie Usa sia calato del 5%. Scomponendo questo dato, si scopre che la forbice è sempre più larga: le famiglie con il reddito più basso - scrive la Fed - «hanno subìto un sostanziale e continuo declino del reddito reale tra il 2010 e il 2013», le famiglie del ceto medio «hanno registrato variazioni minime», e solo le famiglie più ricche «hanno beneficiato di un aumento generalizzato del reddito».
Dove sono finiti i soldi Fed
Questo recentissimo allargamento della forbice sociale, che già era sui massimi dal dopoguerra, è frutto dell'intervento pubblico nell'economia. Dato che i soldi stampati dalla Fed sono finiti sui mercati finanziari e quelli del Governo sono in buona parte andati in soccorso delle banche, è ovvio che la prima beneficiaria della ripresa sia stata Wall Street: dall'inizio del quantitative easing ha così guadagnato il 144%. Ed è ovvio che a godere di questo rally di Borsa sia stato soprattutto chi in Borsa ha grandi capitali: cioè i più ricchi. Quello che appare meno ovvio è che la maggior parte delle tasse (servite allo Stato per salvare per esempio le banche) non vengono pagate dai super-ricchi ma dalla classe media, come più volte segnalato da Warren Buffett. Era il 2011 quando il finanziere denunciò che i ricchi come lui pagavano tasse pari ad appena il 17%, mentre per i redditi medi l'aliquota era del 33%. Di fatto i più poveri hanno sostenuto i redditi dei benestanti. Lo squilibrio fiscale in parte è stato sanato da Obama, ma le diseguaglianze no.
È vero dunque che il rally dei mercati finanziari si è rivelato un efficace volano per l'economia reale (perché ha aiutato le imprese a raccogliere più capitali, dunque a investire, dunque ad assumere), ma è anche vero che dell'enorme sforzo fatto dalla Fed solo una percentuale è veramente finita all'economia reale. E a beneficio di tutti. Calcola l'economista di Natixis Patrick Artus che circa il 40% dei 3.600 miliardi di dollari stampati dalla Fed siano addirittura finiti sui mercati internazionali, in gran parte nelle Borse dei Paesi emergenti. Lo sforzo pubblico, dunque, si è in gran parte disperso. Ha moltiplicato le ingiustizie. Ma, in fondo, ha anche salvato l'economia più importante del mondo.
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