La diseguaglianza italiana, con l'incedere della globalizzazione, cresce. E non cresce mai per buone ragioni. Cresce sempre per i motivi più deteriori. La diseguaglianza italiana, dagli anni Ottanta, aumenta. E, in questa dinamica, si coglie il profilo di un Paese bloccato. Nella parte del rapporto che la Fondazione David Hume dedica specificatamente all'Italia, non ci sono soltanto le demarcazioni territoriali nette che quantificano – in misura drammatica - le distanze fra Sud e Centro Nord, con il rapporto del Pil pro capite del primo e del secondo che - dopo la risalita del secondo dopoguerra (dal 45% del 1951 al 63,5% del 1972) ha sperimentato un quarto di secolo di caduta (nel 1997 il punto di minimo, il 52,7%), per poi tornare a crescere negli anni Duemila, fino al nuovo ripiegamento - al 56% del 2011 - negli anni duri della crisi.
C'è anche la fisiologia di lungo periodo di un sistema economico e sociale che, dagli anni Settanta, non riesce a trovare una via autonoma di creazione – e di distribuzione - di ricchezza attraverso il mercato e che, dagli anni Novanta, resta vincolato a meccanismi di trasferimento di spesa pubblica in via di assottigliamento. «Stando agli ultimi rapporti Ocse (2011) – si legge nel rapporto della Fondazione David Hume - la diseguaglianza dei redditi in Italia è superiore alla media dei Paesi avanzati, e ha avuto un andamento peculiare, diverso da quello di Paesi ancor più disuguali del nostro, come Usa e Regno Unito, dove la disparità dei redditi è sempre cresciuta a partire dagli anni '70.
In realtà, usando una base dati omogenea, risulta che la disparità dei redditi in Italia è superiore alla media Ocse soltanto se questo valore di riferimento è calcolato come semplice media aritmetica, ovvero ignorando il peso demografico di ogni Paese. Considerando invece l'ampiezza demografica dei Paesi, la media Ocse nel 2013 è pari a 0,35, mentre l'indice di disuguaglianza dei redditi italiani è soltanto 0,33, un valore poco superiore a quello dell'Estonia e più basso di quello del Regno Unito».
Il problema è che cosa si intravvede – dal punto di vista della struttura economica – dietro a questi dati, che sono il risultato di una deriva di lungo periodo. Se negli anni Settanta l'indice di Gini è oscillato fra lo 0,37 e lo 0,30, dagli anni Ottanta è tornato – pur con delle fluttuazioni – a crescere stabilizzandosi poi negli anni Novanta in un range compreso fra lo 0,32 e lo 0,35.
«Il nodo – osserva Sergio De Nardis, capoeconomista di Nomisma – è che in Italia non si è innescato il meccanismo paradossalmente virtuoso delle economie che si trovano sulle frontiere specializzative più avanzate e a maggiore valore aggiunto, nelle quali le diseguaglianze aumentano perché vi è una domanda robusta e continuativa di competenze professionali di alto livello e di elevata remunerabilità. Il che sarebbe una buona ragione. In realtà, in Italia le diseguaglianze crescono nelle due grandi fasi recessive, quella dei primi anni Novanta e nell'ultima crisi. Esse si innestano su elementi di strutturale debolezza. Le diseguaglianze si alimentano negli appiattimenti verso il basso di una società e di una economia spesso ripiegate. Le diseguaglianze non esplodono nella corsa più rapida di una minoranza virtuosa».
Nel nostro Paese, adoperando il criterio delle buone e delle cattive ragioni della diseguaglianza, le cose non funzionano nemmeno a contrariis. Negli anni Settanta la diseguaglianza rilevata dall'indice di Gini diminuiva grazie a politiche salariali basate sul punto unico di contingenza: «Quelle politiche salariali avevano già in nuce le ragioni della loro inefficacia, come il sostegno dei processi inflattivi», nota infatti De Nardis. Dunque, nella vicenda di lungo periodo di un Paese come l'Italia, sempre sospeso fra crescita e declino, metamorfosi e trasformazione, l'indicatore della diseguaglianza dei redditi – nella complessità di un tema in cui si alternano elementi macroeconomici e standardizzazioni statistiche, fenomeni sociali e contesti opacizzanti – assume un valore paradigmatico.
«Questa dinamica ci racconta quanto il Paese abbia periodicamente riscontrato impedimenti strutturali nella creazione della ricchezza e nella sua distribuzione. E ci dice quanto sia profonda la frattura fra Centro-Nord e Sud in termini di Pil procapite e di consumi, con un indice di Gini che si accanisce soprattutto nel Mezzogiorno, dove si registra un apprezzabile aumento della diseguaglianza, con una maggiorazione rispetto al Centro Nord compresa negli ultimi vent'anni fra due e cinque punti», spiega Luigi Campiglio, economista dell'Università Cattolica. Peraltro, la differenza in punti percentuali tra il tasso di povertà relativa familiare del Sud rispetto al Centro Nord è salita dal 16% del 2003 al 19,55% del 2013. «Ad oggi - si legge nel dossier della Fondazione David Hume - pare che le due zone d'Italia stiano cominciando nuovamente ad allontanarsi».
In questa dinamica vi sono condizioni esogene ed endogene. Il combinato disposto – per quanto temporalmente traslato – di inflazione e di esplosione del debito pubblico appare rilevante: «Nella prima metà degli anni ‘80 – si legge nel rapporto - la disuguaglianza è tornata a crescere per poi avere una flessione nella seconda metà; una parte del trend può essere dipendente dall'andamento dell'inflazione, che colpisce maggiormente i percettori di redditi più bassi, che toccò il suo massimo del 20% nel 1980. A partire dai primi anni '90 le politiche fiscali volte a contenere il debito pubblico, che hanno ridotto la progressività del sistema di tassazione, hanno concorso al brusco aumento dell'indice di Gini, che da quel momento è oscillato senza accennare ad alcuna variazione significativa».
Proprio il tema del trasferimento delle risorse rappresenta uno dei punti di rottura, nel tentativo di elaborare percorsi di conciliazione fra ricchezza, che peraltro il sistema italiano fatica a creare, e distribuzione di essa. «L'infelice contraddizione italiana – nota Campiglio – è proprio basata su questo aspetto: storicamente la ricerca del bene sociale è avvenuta attraverso i trasferimenti di risorse pubbliche. Il Paese è segnato da una spesa pubblica strutturalmente significativa. Che, però, non si è mai dimostrata capace di ridurre in misura autentica e sana le distanze fra individui. A un certo punto, prima negli anni Novanta e poi con il consolidamento del debito italiano post crisi di Lehman Brothers, gli interventi a favore della riduzione delle povertà scemano quantitativamente e perdono di efficacia sotto il profilo qualitativo».
E, così, l'economia e società del nostro Paese si trovano a sperimentare la tempesta imperfetta di bassa produttività e salari compressi, alta spesa pubblica e politiche sociali inefficaci. L'anello debole è la famiglia, il nucleo fondante del modello europeo in generale e italiano in particolare. Nel 2002, la percentuale di famiglie che usavano i risparmi o contraevano i debiti era pari al 5 per cento. Nel 2013 ha toccato il suo massimo storico: 33,5 per cento. Un dato che, ora, è sceso a un comunque significativo 29,7 per cento.
«In un Paese ad elevata improduttività della spesa pubblica – afferma Maria Grazia Campese, presidente della Cooperativa Sociale Spazio Aperto Servizi – di fronte all'impoverimento costante della popolazione, diventa necessario rimodulare le politiche sociali. Non si tratta di un tema etico. È prima di tutto un tema economico».
L'allocazione errata delle risorse è uno degli elementi della deriva italiana. Una loro riorganizzazione può contribuire a un assetto più giusto e più produttivo. Dice con il gusto del paradosso questa giovane manager del terzo settore, che insegna anche al Master in Economia Civile della Università Bicocca di Milano: «Bisogna tornare alle buone ragioni sia della disuguaglianza sia dell'uguaglianza. Il Paese deve tornare a crescere. E non deve più ragionare sulla spesa sociale in termini pietistici o clientelari. Sennò, e non importa che si operi nel pubblico, nel privato o nel Terzo Settore, possiamo fare che tirare giù tutti quanti la serranda», conclude Maria Grazia Campese.
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