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Il ceto medio, la ripresa e il deficit di fiducia

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l’editoriale

Il ceto medio, la ripresa e il deficit di fiducia

Le società del Primo Mondo si sentono orfane dei ceti medi e di un passato non troppo lontano, quando l’elevata incidenza delle classi di mezzo era indice di levigato benessere. Anche la politica e l’economia ne sono orfane. La politica risente ancora di più del rischio d’evaporazione di questi strati sociali di riferimento. Naviga a vista tra crescente astensionismo ed emergenza di forze populiste che sfruttano le “grandi” paure sociali di questo inizio secolo, metabolizzate dal ventre molle dei ceti medi.

La politica sotto stress, quella elettorale, corre al capezzale del grande malato. Nelle primarie Usa Donald Trump ha giurato protezione al ceto medio, persino sbilanciandosi in favore di più tasse per i super-ricchi. Hillary Clinton ha indicato suo marito Bill all’economia come simbolo di un paese felice in cui non era ancora tramontato l’american dream della classe media. Né David Cameron è da meno quando paventa Brexit come fatale disfatta del benessere delle middle classes britanniche. Anche in casa nostra, approssimandosi amministrative e voto sul referendum, Renzi, dopo aver provato con gli 80 euro, ora lancia la promessa di un ragguardevole sgravio dell’Irperf per i redditi medi.

Tuttavia, la gente stenta a riconoscersi negli accattivanti quadri dipinti dall’oratoria persuasiva dei leader politici. Lo scivolamento verso il basso dei ceti medi rende questi vulnerabili alla paura del globale e, di conseguenza, propensi al disincanto, all’individualismo cinico, al risentimento. Un mood che conduce o nella terra di nessuno, uno spazio dell’indifferenza e ignavia elettorale, o nella terra incendiaria di mercati politici assediati da forze populiste e astensioniste. Tutti promettono (e a volte fanno qualcosa) per rilanciare il ceto medio, come serbatoio di consumatori e di elettori, ma senza una visione che individui quel punto di Archimede su cui far leva per sollevare un nuovo ceto medio, da XXI secolo. Non sarà semplice visto che gli strati sociali intermedi sono andati in pezzi.

Negli Usa - se si adotta la classificazione di Lester Thurow - la somma della popolazione che sta sopra al 125% del reddito mediano e quella sotto, con il 75%, è ormai superiore alla classe di mezzo. Meglio in Europa, dove Svezia e Italia presentano divari più contenuti tra i redditi del 10% più ricco e i redditi mediani. Questi ultimi, tuttavia, cedono in quasi tutto l’Occidente.

Dinamiche e cause del declino dei ceti medi annoverano fattori che spaziano dai processi globali creati dai flussi di capitale, lavoro e merci al tecnological change; da un sistema di welfare ristretto a una pressione fiscale un tempo pensata a finanziarlo (proprio con le tasse di un vasto ceto medio); da un aumento dei flussi di eredità (Pikkety) allo smottamento del sistema di opportunità di mobilità sociale fondato sull’istruzione; dalla minor incidenza del lavoro sul reddito nazionale alla polarizzazione salariale (Atkinson) che vede una parte contenuta dell’ex-ceto medio avanzare verso “i più ricchi”, mentre la parte lower, più consistente, si trova sul filo del rasoio della deprivazione relativa (si veda «Il Sole 24 Ore del 2 febbraio scorso). La complessità di tali dinamiche causa preoccupazioni anche agli attori economici.

Una classe media “in bolletta” si traduce in mercati interni di consumo che arrancano senza una vera e propria ripartenza, a danno del potenziale di crescita. Forse le economie occidentali si sono illuse di poter inseguire la crescita impetuosa e veloce dei consumi di ceto medio nei Brics, ora in affanno, e hanno trascurato la crescita dei mercati interni, di cui i ceti medi sono l’architrave. Le classi medie non sono solo un serbatoio di consumatori, ma anche un propellente per lo sviluppo socio-economico. A esempio, in Italia una folla di micro e piccoli imprenditori è stata artefice del nostro secondo miracolo industriale, quello della Terza Italia di Bagnasco e Fuà. Oggi, sui consumi interni si riverberano non solo il declino delle retribuzioni medie e l’alta disoccupazione, ma anche, in chiave produttiva, il fiato corto del ceto medio produttivo e lo spreco di capitale umano competente.

Tutti si sentono orfani del “glorioso” ceto medio. Chi guida però non ha una visione e soluzioni capaci di spegnere la disillusione di un tempo che non c’è più (da qui la società dell’incertezza e del rischio di Bauman e Beck). Per tornare, in conclusione, a quel punto di Archimede in grado di elevare un nuovo ceto medio, consideriamo che il “punto d’appoggio” non è solo questione di “spessore del portafoglio”: come in passato, i nuovi ceti medi saranno anche una nuova mentalità che mixa sistema di pari opportunità con mobilità sociale, consumi, senso di appartenenza, uso di tecnologie e diritti e doveri di cittadinanza.

In definitiva, è uno “stato d’animo” che ha a che fare molto con la fiducia verso il contesto e chi lo guida. Per crearlo bisogna guardare alle trasformazioni concrete come la de-professionalizzazione, in tempi digitali, dei ceti medi tradizionali. O come, all’opposto, la massiccia adesione di quelli nuovi al know how scientifico e tecnologico. Questo è infatti il nuovo ascensore sociale per ricreare nel XXI secolo il sogno di un ceto medio diffuso.

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