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Un rinvio dal sapore «Made in Germany»

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L'Editoriale|editoriale

Un rinvio dal sapore «Made in Germany»

Tra l’alt all’estrema destra in Austria e lo stop al default della Grecia sono trascorse solo 48 ore, un tempo eccezionalmente breve per celebrare la fine di un doppio incubo europeo e il timido principio, forse, di una convivenza nuova nell’Unione sballottata dalle sue troppe lacerazioni interne.

Ma è vera fine? Dubbi e cautele sono d’obbligo. Come troppo spesso accade in Europa, il sollievo della prima occhiata non regge all’esame più attento della realtà: dei voti espressi e delle decisioni prese.

Non ha conquistato la presidenza della Repubblica ma l’estrema destra austriaca controlla il 50% dei consensi popolari e dilaga in Europa. Il rischio chiusura del Brennero, reale, sta lì a ricordarlo. Come l’agonia di Schengen.

L’intesa raggiunta ieri notte sulla Grecia è figlia della stessa logica a doppio taglio. L’emergenza finanziaria si allontana, grazie all’adozione di nuove misure lacrime e sangue Atene ottiene lo sblocco di aiuti per 10,3 miliardi e addirittura il percorso di ristrutturazione del debito. Dunque finalmente giro di boa, fugato lo spettro di Grexit insieme all’ostinato festival dei malanimi reciproci?

Sì e no. Certo, rispetto alla tragedia annunciata dell’estate scorsa, Grecia e euro a braccetto sull’orlo del baratro, il quadro si è ribaltato: con realismo il governo Tsipras ha fatto la sua parte di rigore e riforme, le ennesime, sfidando l’impopolarità e il suo credo. Eurozona e Fmi alla fine l’hanno premiato con moderazione e grandissima circospezione.
L’accordo sul debito c’è ma contenuti, tempi e modi restano ancora vaghi.

Per riempirlo c’è tutto il tempo, visto che sarà operativo solo dal 2018, alla scadenza del terzo pacchetto di salvataggio ma, soprattutto, una volta lasciate alle spalle le elezioni tedesche di fine 2017. Grecia e Fmi si sono arresi alla tempistica imposta dalla Germania.

Come dire che qualcosa cambia nell’Europa in crisi semplicemente per lasciarla uguale a se stessa. Prevalgono, in breve, le soluzioni che non devono disturbare il grande manovratore tedesco né i creditori del Nord: vale per la Grecia come per l’unione bancaria azzoppata alla nascita. Vale per la chiusura della rotta dei Balcani ai rifugiati come per il patto leonino stipulato con la Turchia di Erdogan per respingere i flussi, non importa a quale prezzo.

In tutti i casi, sempre e comunque, niente o minime mutualizzazioni dei rischi: i cittadini-contribuenti non vanno allarmati e non conta se spesso le loro ansie sono alimentate non dai fatti ma da narrative delle crisi unilaterali che non sempre trovano riscontri reali.

Così la Grecia dei mezzi sudatissimi contentini in cambio di tagli e sacrifici veri è da anni il caso di scuola: da additare a tutti i paesi che in qualche modo le assomiglino. Nonostante il suo debito sia schizzato alla stelle in percentuale (180% del Pil) ma non in volume (costante), semplicemente perché 8 anni di recessione ne ha prostrato
la crescita.

Intendiamoci. Nessuno si scandalizza di fronte alle ragioni della Realpolitik, purché non siano sempre e solo nazionali, uni-direzionali e riflettano unicamente gli interessi dei soliti noti in un club che ancora si chiama Europa. Che sia così, lo conferma, tra molti, uno studio degli euro-liberali presentato ieri a Bruxelles dall’ex-premier belga, Guy Verhofstadt.

Tre programmi di aggiustamento orchestrati dalla coppia Ue-Fmi, 12 revisioni, 220 miliardi versati, vi si legge, sono serviti a rassicurare i creditori ma non a vincere recessione e crisi in Grecia: oggi ha un debito quasi doppio rispetto alla media euro, crescita zero contro l’1,6, disoccupati più che doppi (25,1% contro 11).

La cura è fallita perché gli autori hanno scambiato una crisi da modello di sviluppo e strutture istituzionali sbagliate per una crisi contabile da risolvere raddrizzando gli indicatori economici, accusa Verhofstadt. Che propone di ribaltare l’approccio per guarire il paese.

Peccato che, nonostante i risultati fin qui disastrosi, anche l’ultimo accordo sia perfettamente in linea
con i precedenti.

Le ragioni sono molte. Le più evidenti riposano sugli opportunismi elettoralistici. Le più profonde su una sfiducia reciproca tanto radicata da apparire strutturale. In quest’ottica le crisi non si risolvono ma si tamponano, nel segno di barriere culturali e psicologiche apparentemente invalicabili, ma solo per ridurre i danni. E a patto
che il paese in difficoltà si arrenda ai diktat altrui. Indipendentemente
dai risultati.

Dalla vecchia Unione cementata dall’unità nella diversità si slitta così lentamente verso l’Unione divaricata tra Stati diseguali, dove alcuni sono condannati dalle proprie presunte colpe a una sovranità a scartamento ridotto e altri legittimati dai propri presunti meriti a dettare la propria legge. Nella realtà lo spartiacque tra vizi e virtù non è così cristallino. Il caso Grecia insegna. Il guaio vero è che oggi l’Europa rischia di diventare l’illustre vittima di entrambi.

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