Fare le cose difficili. A partire dalle imprese. A partire da noi. Questo è di certo uno dei messaggi innovativi più rilevanti della prima relazione di Vincenzo Boccia, all’assemblea annuale di Confindustria, e indica la cifra dell’uomo e dell’imprenditore: crescere deve diventare la nostra ossessione, ma “prima di chiedere agli altri, dobbiamo iniziare a indicare ciò che spetta a noi. Il nuovo contesto impone un salto culturale, un nuovo stile imprenditoriale”. Boccia ha detto agli imprenditori che “si nasce piccoli per diventare grandi”, che bisogna aprire il capitale delle imprese al private equity e superare la perdita della paura del controllo, giocare fino in fondo la carta della tecnologia scommettendo sull’intelligenza creativa e sulle filiere italiane, acquisire dimensione qualitativa per assumere l’indispensabile stazza internazionale in un mondo globalizzato. Insomma, ha detto chiaro e tondo: prima di lamentarci, prima di dare pagelle agli altri, facciamo un esame di coscienza, prendiamo l'impegno di evitare scorciatoie e cominciamo, con i nostri comportamenti, a fare sistema. Solo così potremo tutelare, conferire e valorizzare il capitale dell’industria e della cultura che il mondo ci invidia.
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Una lettura superficiale di questa relazione potrebbe limitarsi a sottolineare le aperture del neo presidente di Confindustria (editore di questo giornale) ai segni del riformismo governativo che pure ci sono (superamento di bicameralismo perfetto e titolo V, lavoro, fisco, scuola e Pubblica Amministrazione) ma avrebbe il difetto di non cogliere la forza della denuncia del ritardo italiano, della gracilità della ripresa, e il richiamo consapevole a una nuova responsabilità che “impegni tutti allo spasimo” per dare al Paese un futuro di benessere e di equità ancora da costruire. Bastano pochi numeri per capire di che cosa stiamo parlando: dal 2000 a oggi la produttività nell’intera economia è salita dell’1% in Italia contro il 17% dei nostri maggiori partner europei; nel manifatturiero, cuore e motore della possibile rinascita italiana, i distacchi aumentano perché noi cresciamo del 17% ma Germania e Spagna del 33-34%, il Regno Unito del 43%, la Francia del 50%. Per non parlare del costo del lavoro che in Italia è salito dal 2000, sempre nel manifatturiero, del 56% rispetto al 36% della Germania e, mettendo a confronto i livelli di crescita dei due Paesi, misura in modo impietoso il problema italiano. Bisogna imboccare la strada sistemica della detassazione e della decontribuzione strutturali (e questo riguarda l’intelligenza politica di lungo termine del governo Renzi) e quella parallela, altrettanto coraggiosa, di una politica retributiva coerente e meritocratica senza tetti di salario o di premio con lo scopo di incentivare i lavoratori e le imprese virtuosi (e questo riguarda la ineludibile responsabilità delle parti sociali).
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Al posto di impegnare ogni giorno testa e energie in una campagna elettorale, da qui a ottobre, in vista del referendum sulla riforma costituzionale, il governo Renzi faccia quelle cose difficili che rientrano nel suo disegno di azione politica ma appaiono ora sullo sfondo, tardano ad arrivare. Si proceda con forza e qualità operando interventi di precisione chirurgica nella spending review, si recuperino così risorse aggiuntive e si rendano il più strutturale possibile i tagli ai prelievi fiscali e contributivi. Si aumenti decisamente di passo nell’attuazione della riforma della Pubblica Amministrazione e della giustizia, a partire da quella civile, ancora prima e dentro un quadro costituzionale moderno ma non privo dei necessari contrappesi. Le parti sociali dimostrino di avere a cuore il futuro del Paese e dei loro giovani facendo scelte innovative in termini di contrattazione aziendale e di produttività.
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Solo questo cammino, tutto in salita e senza scorciatoie, può consentire all’Italia di voltare pagina per davvero, tornare a dare occasioni di lavoro concrete e qualificate ai nostri giovani, recuperare un ruolo politico che restituisca all’Italia il peso dei Paesi fondatori nelle scelte (altrettanto ineludibili) affinché l’Europa ritorni a essere un protagonista nell’arena della competizione globale. L’Italia con le carte in regola e l’unicum della sua storia culturale e industriale, è il Paese ideale per guidare il processo che ci conduce agli Stati Uniti d’Europa fuori dalle miopie (purtroppo non solo tedesche) che ci vincolano a un’austerità priva di virtù e allargano ogni giorno il fossato che impedisce ai cittadini italiani, finlandesi, olandesi, greci e così via, di sentirsi tutti cittadini europei. Per un’impresa esportatrice come quella italiana che ha il mondo come mercato domestico e avverte i contraccolpi della frenata globale, dentro una crisi superiore per durata e qualità a quella degli anni Trenta, lo stallo europeo ha il peso e la dimensione di un altro fardello pesantissimo. Va rimosso, per evitare che rotoli e schiacci tutto, anche quello di buono che fino ad oggi è stato fatto. Si tratta, ancora una volta, di fare le cose difficili.
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