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Storie belle e amare di un’Italia che vuole rialzare la testa

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MEMOrandum

Storie belle e amare di un’Italia che vuole rialzare la testa

Gentile direttore Napoletano,
leggo spesso la «Domenica» del «Sole 24 Ore». Oggi, in particolare, riflettendo sul suo Memorandum ho pensato alla mia situazione. Ho 25 anni e due settimane fa ho fondato una società con un altro ragazzo, Enrico Bonzanini, che ha giusto un anno più di me. Nel 2012 creammo un sito di notizie e, grazie a un fondo della Diocesi di Carpi (Fides et Labor, che concedeva prestiti fino a 10mila euro dati a imprese giovanili, senza chiedere le classiche garanzie e da restituire senza interessi) abbiamo potuto iniziare a sviluppare questa piccola attività. Successivamente abbiamo fatto ripartire «Radio 5.9», la web radio emiliana nata dopo il terremoto del 2012 per dar voce al territorio in quel difficile momento. Oggi dopo quattro anni di lavoro abbiamo deciso di investire tutto quello che avevamo creando Wildcom Italia Srl, un’azienda che appunto si occupa di comunicazione per le imprese e che sviluppa i progetti avviati in precedenza. In questi anni abbiamo fatto un lavoro duro, amici e parenti ci hanno spesso rimproverato perché passavamo intere giornate a lavorare, dalla mattina presto fino alla sera tardi. Il mio socio, che come primo lavoro faceva l’agricoltore, spesso mi dettava al telefono gli articoli mentre si trovava nella vigna per potare... Tutto questo ad alcune persone è apparso insensato.

La domanda in questi anni è stata sempre la stessa: «Ma chi ve lo fa fare? Lavorate il doppio e quello che guadagnate lo spendete per lavorare, che senso ha?». Chi ce lo fa fare? La consapevolezza che l’unico modo per contrastare una crisi è quello di creare. Creare lavoro, creare qualcosa che aiuti le straordinarie imprese italiane a raccontarsi. Creare è l’unica strada possibile e, per quanto si tratti di una strada in salita e complicata, come lei sa bene, abbiamo il dovere di fare la nostra parte. La bellezza di essere giovani è che tra tante mancanze abbiamo la forza di fare i sacrifici necessari. Le chiedo scusa se mi sono dilungato ma ci tenevo a raccontarle la nostra semplice storia, simile a tante altre, ma speciale per noi che la stiamo vivendo. L’Italia è il più bel Paese nel quale realizzare un’azienda, non perché sia semplice, ma perché è la nostra terra e per quel poco che conta siamo certi varrà sempre la pena di lavorare per essa! Se mai ritenesse tempo ben speso conoscerci, saremmo davvero felici e onorati di poterle parlare. Se non fosse possibile sappia comunque che in Italia c’è un’impresa in più che crede in questo Paese. Forse sarà poco, ma per noi è tutto!
- Nicola Pozzati

Egregio direttore,
mi chiamo Bruno Montanari e sono un affezionato lettore dell’edizione domenicale del suo giornale. La mia riflessione trae origine dal suo consueto Memorandum, nella parte dedicata a D’Alimonte e ai giovani. Per cominciare, una curiosità: Roberto D’Alimonte è stato mio compagno di corso alla Scuola Allievi ufficiali di Commissariato dell’Aeronautica alle Cascine (Firenze). È allievo di Sartori come Maurizio Cotta, figlio del mio maestro Sergio, filosofo del diritto. Mestiere che vado praticando da oltre quarant’anni in diverse facoltà di Giurisprudenza, l’ultima delle quali quella della Cattolica di Milano, insieme a Catania.

Queste curiosità, per consentirle di inquadrare ciò che sto per scriverle. Allora: D’Alimonte e i giovani. D’Alimonte ha ragione, e il motivo per cui gliela riconosco è che ormai è pressoché inutile fare sondaggi politici perché la gente comune pensa alla crisi economica legata ai posti di lavoro.

Veniamo ai giovani. Nella mia esperienza di docente di una materia di primo anno (Filosofia del diritto), mi sono convinto che le recenti generazioni, quelle degli ultimi tre-quattro anni, hanno una nuova consapevolezza critica della loro condizione umana tale per cui, su di loro, si potrebbe e dovrebbe investire. Essi, infatti, sanno di essere “orfani” di un sapere capace di farli uscire da quella sorta di “limbo” in cui si sentono chiusi e isolati. Paradossalmente la Rete, spingendoli a un’identità virtuale e dunque artificiosa, ne incentiva l’individualismo e la solitudine esistenziale. A loro manca la forza di un’identità fatta di luoghi in cui si coltivino memoria e progetti sociali, come ad esempio “associazioni politiche, partiti veri eccetera...”. Scrivendole questi pensieri, ho solo sintetizzato quanto mi è pervenuto dai dialoghi con loro e dalle mail che mi hanno scritto.
- Bruno Montanari

Gentile Roberto,
lei non mi conosce, a differenza di me, che da anni seguo i suoi editoriali e ammiro il suo operare. Ho una storia alle spalle, come tutti, che mi ha vista brillante ricercatrice universitaria in Italia prima e all’estero poi, dopo la nascita del secondo figlio, in seguito alla quale i docenti italiani mi dissero che non potevo avere tutto, lavoro e famiglia e pian piano mi esclusero dalla ricerca e dalla vita universitaria... Allora presi armi e bagagli e vinsi, con le mie sole forze, un bel concorso di docente al Politecnico di Losanna. Per motivi vari dopo un po’ decisi di rientrare nel mio Paese, convinta che, con quel bagaglio di esperienza e di meriti alle spalle, avrei avuto tutte le porte aperte. Stupida ingenua che sono stata! La mia qualifica in Italia non vale nulla. Ora sono qui, a quasi 50 anni, senza lavoro e quando mai lo ritroverò? Uno che piace a me, gratificante per quello che ho studiato! Alla mia età sono spacciata... E cosa faccio e di che vivo fin che campo? Forse ne ho ancora per un po’, magari per altri 30 anni! Magari meno, magari di più…
- Laura Ceriolo

Nicola Pozzati ha 25 anni, è partito con un prestito di 10mila euro di un fondo della Diocesi di Carpi e, insieme a Enrico Bonzanini che ha un anno più di lui e passava i giorni a potare le vigne, si è messo in testa di far decollare la web radio emiliana nata nei giorni del terremoto per diventare la voce della “riscossa” di quel popolo, gente tosta e diretta, che ha occupato garage e aree dismesse con i propri macchinari e non ha mai fermato le sue produzioni «perché il mondo non aspetta» e i «cinesi sono dietro l’angolo». Ci sono due frasi di Nicola che mi hanno colpito e meritano di essere riprodotte. La prima: «L’Italia è il più bel Paese nel quale realizzare un’azienda, non perché sia semplice, ma perché è la nostra terra e per quel poco che conta siamo certi che varrà sempre la pena di lavorare per essa!». La seconda: «Sappia che in Italia c’è un’impresa in più che crede in questo Paese. Forse sarà poco, ma per noi è tutto!». Prometto a Nicola ed Enrico che troverò il tempo per andare a Carpi e conoscerli, ma intanto voglio dire loro un grazie pubblico perché con persone così, con la passione che hanno per il lavoro che si sono inventati, l’attaccamento e l’amore che rivelano per le loro terre, quella voglia dichiarata di «creare lavoro» e di «creare qualcosa che aiuti le straordinarie imprese italiane a raccontarsi», c’è da tornare ad avere fiducia in questo Paese e nella capacità di riscatto con la spinta dei suoi giovani, il capitale più importante che abbiamo.

È bello che un anziano e stimato professore della Cattolica di Milano, Bruno Montanari, che insegna Filosofia del diritto, senta il bisogno di scrivere testualmente «mi sono convinto che le recenti generazioni, quelle degli ultimi tre-quattro anni, hanno una nuova consapevolezza critica della loro condizione umana tale per cui, su di loro, si potrebbe e dovrebbe investire». Sta succedendo qualcosa, racconta il professore, stanno uscendo dal “limbo” dell’isolamento internettiano per recuperare memoria storica e identità, dimostrare al mondo intero che hanno voglia di impadronirsi di quel “sapere” indispensabile per vincere la sfida digitale e dell’innovazione uscendo dalla solitudine esistenziale e scommettendo su se stessi, sulle loro teste, sui loro contenuti. I nostri giovani ci sono, hanno talento e, questa è la novità, sono tornati a voler puntare sull’Italia, hanno voglia di farlo in prima persona, hanno riscoperto la fatica del “sapere” e il gusto profondo di mettersi in proprio, di dimostrare qui, in questa terra, che ce la faranno perché non molleranno per nessuna ragione al mondo. Questa Italia giovanile non può essere delusa, deve sentire che il Paese ha deciso di scommettere su di essa. Questa è la priorità. Perché non possiamo ritrovarci tra qualche anno a prendere atto che il mood è di nuovo cambiato e che i nostri giovani di valore più intraprendenti sono tornati a scegliere il resto del mondo, fuori dell’Italia.

Le parole di Laura Ceriolo scuotono le coscienze e raccontano il lato più amaro di questa crisi senza fine che ha superato di gran lunga quella terribile degli anni Trenta. Quante sono le persone di valore di poco meno di 50 anni che la crisi ha “espulso” dalla produzione e non sanno a chi rivolgersi per recuperare quell’impiego che valorizzi le loro competenze, ma soprattutto restituisca loro la dignità perduta? Che Paese è quello che ostacola la crescita nello studio e nella ricerca dei suoi cervelli migliori e li spinge fuori dai suoi confini? Che cosa pensereste di un Paese che non riesce neppure a riconoscerne il valore quando quegli stessi cervelli decidono comunque di tornare, anzi chiude tutte le porte, quasi per dispetto, senza capire che il dispetto lo fa a se stesso? Il futuro sono i nostri giovani, ma la tragedia raccontata dalla Ceriolo è un esempio tra i tantissimi del più colossale spreco di risorsa umana che si possa concepire e, tanto meno, realizzare. Rinunciare a questo patrimonio di competenze e di valori, farlo con tutti o quasi senza battere ciglio, spesso nel silenzio o nell’indifferenza generale, è il risvolto più nascosto e terribile della crisi sistemica di un Paese. Figuriamoci se non capisco i vincoli che l’Europa ci pone, le miopie tedesche sulle quali non ho mai lesinato critiche, ma è un fatto non tollerabile che tanti, troppi cinquantenni italiani vanno a letto con un lavoro e si svegliano la mattina senza lavoro e senza neppure la speranza di trovarlo. Quanto pesi questo sulla fiducia di una comunità sana, che ha deciso di rialzare la testa, non è dato sapere con precisione, ma da quello che si vede, si sente, si tocca, basta e avanza per fargliela perdere di nuovo in fretta. Non possiamo permettercelo e guai a chi decide di sottovalutare il problema. Il conto da pagare stenderebbe alcuni più di altri, ma riguarderebbe tutti. Prima ce ne rendiamo conto, meglio è.

Pubblichiamo stralci di tre delle numerosissime lettere pervenute al direttore dopo il «Memorandum» di domenica scorsa («La voglia di riscatto dei giovani, le cose difficili e il capitale della fiducia») e le relative risposte.

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