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I migranti e il conto tragico della storia

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GUERRE E GLOBALIZZAZIONE

I migranti e il conto tragico della storia

(Ap)
(Ap)

Per affrontare i flussi migratori bisogna capire il problema. Se il Mediterraneo continuerà a essere una tomba liquida dei profughi la colpa non sarà soltanto delle guerre e delle disastrose condizioni dei Paesi africani e del Medio Oriente. Questa è una parte della storia, al momento preponderante, ma non è tutta la storia. È una questione politica e di sicurezza che investe tutta l’Europa e l’Occidente, Stati Uniti e Nato compresi.

La tragedia ha la misura devastante di un conflitto di portata epocale che rimanda non solo a cifre ma anche a dimensioni umanitarie che non si vedevano dalla seconda guerra mondiale, con una violenza enorme esercitata su esseri umani indifesi. Questa non è soltanto una fuga dalle guerre e dalla povertà: è il conto che ci presenta il fallimento della redistribuzione delle ricchezze a livello globale, è l’ingiustizia mondiale che bussa alle porte di casa.

Sigillata la rotta balcanica, dal Sud arrivano gli africani: tra il 2010 e il 2015 ne sono sbarcati due milioni con un incremento del 10% rispetto ai cinque anni precedenti. Da dove vengono? Da un continente che è un sorta di rebus demografico ed economico. Da qui al 2050 la popolazione potrebbe raddoppiare raggiungendo i 2,4 miliardi di persone prima di assestarsi nel 2100 intorno ai quattro miliardi.

Queste proiezioni dell’Onu sconvolgono le prospettive di sviluppo. Il rapporto dell’African Development Bank prevede che il tasso medio di crescita del Pil quest’anno si manterrà intorno al 4,5 per cento. A prima vista una performance notevole ma se si guarda al Pil pro capite la crescita scende all’1,6% nell’Africa subsahariana, dove oltre alla povertà si estende la destabilizzazione del terrorismo islamico e una violenza urbana diffusa.

Non basta la missione Eunavfor, non sono sufficienti le dichiarazioni del presidente della Commissione europea Juncker sugli Stati che non collaborano alla redistribuzione dei profughi e le reprimende all’Italia. «Non riesco a credere che un continente come l’Europa di 500 milioni di abitanti non sia in grado di accogliere 2 milioni di profughi», ha detto qualche giorno fa.

Eppure è così che stanno le cose, anzi peggio, perché i numeri potranno essere a breve molto più alti.
Cosa vogliamo fare? L’anno scorso in Italia sbarcarono 150mila profughi, i luoghi di accoglienza sono sottodimensionati e lo stesso quadro legislativo non è adeguato, soprattutto quando sono i minori ad arrivare, sempre di più: un aumento del 170% rispetto all’anno scorso. Ci dobbiamo mettere a regime per affrontare la gestione di migliaia di persone ma anche l’Unione europea non può continuare a voltare la testa dall’altra parte.

Non siamo di fronte a un’emergenza, anche se ne ha tutte le caratteristiche, ma a una crisi di lungo periodo e non illudiamoci che si possa esportare domattina lo sviluppo per limitare le migrazioni: è un’idea vecchia, balzana quasi quanto l’export della democrazia con la guerra di Bush junior. L’Africa, 54 nazioni, conta per meno del 2% del commercio mondiale e per l’uno per cento della produzione industriale globale. Se vogliamo sostenere gli africani abbassiamo i dazi sulle importazioni, il che significa dare più del fondo fiduciario da 1,8 miliardi proposto al vertice di Malta, in discussione a Bruxelles con il migration compact italiano.

Se si sono varate risoluzioni del Consiglio di sicurezza Onu per fare la guerra a destra e manca, formando nel tempo coalizioni di “volonterosi” per abbattere questo o quel regime, si dovrebbe costituire anche una “grande alleanza umanitaria”. Serve un summit operativo sulle migrazioni al quale devono partecipare anche la Nato, gli Usa e gli alleati dell’Occidente, Onu inclusa, dove i leader escano con impegni precisi: chi si rifiuta deve essere colpito da sanzioni non da procedure che fanno ridere i polli. I Paesi dell’Est sono i più riottosi: smettano di chiedere di spostare la Nato per contrastare la Russia e pensino alla vera emergenza che abbiamo di fronte.

E non bisogna storcere troppo il naso quando i libici di Tripoli si mostrano disponibili a rimettere in vigore l’accordo del 2009 con l’Italia: si è negoziato con Erdogan, bisogna farlo con la Libia se si vuole fermare i traffici umani. Francesi, egiziani, Emirati, sostengono il generale Khalifa Haftar in concorrenza con il governo di Tripoli che boicottano costantemente: si prendano dunque le loro responsabilità anche per i morti in mare.

Una rilievo geografico che è pure politico: i migranti non muoiono soltanto nel Canale di Sicilia ma anche sulle coste libiche. Affermare che le tragedie avvengono sempre nel Canale di Sicilia appare strumentale a circoscrivere il dramma e a darne una connotazione locale: l’Europa e gli Stati Uniti, con la loro potenza militare ed economica, devono capire che questa non è la nostra vasca da bagno dove affogano essere umani.

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