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Interesse nazionale e rispetto delle regole

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IL CASO AGUSTA WESTLAND IN INDIA

Interesse nazionale e rispetto delle regole

Le regole e le sentenze vanno sempre rispettate, ma non c’è dubbio che la spirale in cui sono finiti i rapporti tra Italia e India vada ben oltre il perimetro del diritto. Che si tratti dei Marò o delle tangenti sugli elicotteri, poco cambia. Qui non si tratta più di stabilire se o dove vadano giudicati i due militari italiani, accusati di aver ucciso due pescatori indiani in un tratto di Oceano infestato di pirati. O di stabilire se uno o più dirigenti di una grande azienda italiana abbiano pagato tangenti per aggiudicarsi un appalto. Quando le incomprensioni rischiano di alimentare ritorsioni e sfociano in eccessi, la sola cosa che conta è riportare il confronto sul binario della correttezza.

nche se l’intransigenza e l’arroganza con cui le istituzioni indiane hanno affrontato i due casi, l’Italia ha fatto finora anche più del dovuto per non alzare i toni dello scontro. Forte del suo status di Superpotenza economica e politica, per l’India è stato gioco-facile imporre all’Italia le proprie scelte, arrivando persino a minacciare sanzioni economiche quando Palazzo Chigi si è rivolto alle istituzioni internazionali. Fermare questa macchina prima che sfugga di mano è oggi la vera priorità.

Certo, dopo lo stallo sui Marò la decisione di escludere Finmeccanica dagli appalti militari annunciata ieri dal ministro della Difesa indiano rappresenta la peggiore delle mosse possibili. Non solo per lo strappo ingiustificabile alle regole internazionali, ma anche per gli effetti collaterali che rischia di avere: quando si calpesta l’interesse nazionale, è difficile tornare indietro senza danni.

E alla fine, non ci sono né vincitori né vinti.
Il vero interesse nazionale dell’Italia, insomma, è tornare al dialogo e alla distensione, anche in virtù dei legami economici e industriali che da sempre legano il nostro Paese alla realtà indiana. Commercio, turismo, industria, ricerca, rispetto e correttezza sono stati i cardini di un rapporto che non può e non deve restare prigioniero di battaglie politiche che nulla hanno a che fare con la qualità dei rapporti bilaterali.

In questo caso, il rischio di una deriva politica, economica e diplomatica non va sottovalutato. Quando si tiene in ostaggio la più grande azienda pubblica è come mettere in discussione la reputazione e la credibilità internazionale dello Stato, suo garante e azionista di controllo.

Qui non si tratta di creare isole di impunità o zone franche per la correttezza degli affari, ma di garantire trasparenza e rispetto delle regole, processi e sanzioni che non siano macchiati da sospetti di parzialità o nazionalismo, demagogia o populismo o addirittura da un cinico calcolo politico ed elettorale. In questo caso, ci sono troppi elementi che danno volti ambigui alla sfida lanciata dall’India: il sospetto, rilanciato persino dalla stampa indiana, è che sia il processo ai Marò che soprattutto le sanzioni a Finmeccanica siano ostaggio e strumento della battaglia politica senza esclusione di colpi in corso da anni tra i due grandi partiti indiani. In altre parole, per gli stessi media indiani, l’Italia, i suoi Marò e Finmeccanica sono finiti inconsapevolmente tra l’incudine della giustizia e il martello dello scontro politico.

A sorreggere questa tesi c’è più di un elemento, sia sul fronte giuridico che su quello politico. Nel caso Finmeccanica, infatti, l’inchiesta sulle tangenti che ha portato alla condanna, tra gli altri, dell’ex ad del gruppo Giuseppe Orsi ha riguardato soltanto la magistratura italiana: nessun tribunale indiano ha processato infatti per corruzione i generali e i minitri che avrebbero intascato tangenti, i mediatori sospettati, i dirigenti del gruppo italiano o la stessa azienda elicotteristica al centro dello scandalo. In altre parole, chi avrebbe pagato le tangenti in India è stato condannato solo in Italia, mentre chi le ha intascate in India non è stato neppure processato.

Ma a rendere ancora più paradossale e opaca questa vicenda ci sono altri due aspetti non irrilevanti: nessun altro Paese coinvolto direttamente o indirettamente nello scandalo degli elicotteri indiani ha ritenuto di aprire un’inchiesta sul caso. Non di certo l’Inghilterra, dove ha sede legale l’Agusta Westland, l’azienda elicotteristica controllata da Finmeccanica e quindi al centro dello scandalo: l’India ha sollecitato più volte le autorità inglesi ad aprire un’inchiesta come quella italiana, ma l’esito degli accertamenti è stato negativo. Da Londra non è arrivato nessun elemento che provasse l’esistenza di tangenti. Ma ancora più curioso è il fatto che gli Stati Uniti siano rimasti totalmente da parte: di solito, sono le autorità americane a indagare per prime se c’è il sospetto che un appalto internazionale sia stato vinto illecitamente da un’azienda.

Il raggio di azione della Sec è sovrannazionale e nessuna azienda può permettersi di sottrarsi al giudizio e alla sanzione delle autorità di vigilanza americane: pena, il divieto di operare in Usa. Nel caso degli elicotteri italo-inglesi, non c’è notizia di inchieste o procedimenti. La decisione di inserire Finmeccanica nella Black-list della corruzione appare dunque eccessiva e viziata da scelte quanto meno azzardate: non solo non esistono precedenti in cui un governo ha bandito dalle gare pubbliche aziende straniere per reati di corruzione (di solito si puniscono i responsabili e si sanziona l’azienda con una multa), ma mai si è fatto qualcosa di simile senza il supporto di processi e condanne: tutte le misure punitive decise dall’India derivano dall’inchiesta della magistratura italiana. Che di solito, insieme ai corruttori punisce i corrotti. Una regola che l’India sembra aver invece trascurato.

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