Si sussurra di un piano B nel cassetto ma si incrociano le dita sperando che il referendum celebri il grande flop del partito del no. «Non si può dire ad alta voce ma a questo punto, se uscisse, la Gran Bretagna farebbe all’Unione un favore maggiore che se restasse, perché i negoziati che seguirebbero sarebbero più facili e lineari e l’integrazione del continente o comunque dell’eurozona potrebbero finalmente fare un balzo in avanti», dice un diplomatico europeo.
Di certo per ora, in realtà, c’è ben poco. Sicuro è solo il fatto che, qualunque sarà l’esito del referendum, l’Unione non sarà più la stessa. Nella convinzione, incontestabile, che l’Europa sia più forte con la Gran Bretagna dentro piuttosto che fuori, si è scelto di indebolire l’Unione pur di tenere dentro Londra: questo il paradosso sancito nel contratto “post-matrimoniale” siglato il 23 febbraio scorso tra Londra e i partner Ue. Però l’accordo sarà valido solo se gli inglesi decideranno di restare, altrimenti decadrà automaticamente. Strana Europa questa che, per uscire da un vicolo cieco, si infila in un altro, per risolvere il problema di uno Stato membro riottoso, moltiplica i propri problemi accettando addirittura di smontare pezzo dopo pezzo il proprio modello identitario. Mala tempora currunt: nell’Unione già stressata da tante altre Brexit in fieri, provata dai troppi no già incassati e pronti a ripetersi, corrosa dalla caduta del consenso popolare, si procede a vista, giocando con il fuoco del contagio nell’illusione di spegnerlo.
La Gran Bretagna, che ha regalato al mondo la Magna Charta, democrazia coriacea al contrario di quelle dei dirimpettai continentali, rappresenta per l’Europa prima di tutto un enorme patrimonio di cultura e di equilibrio. Supportato da economia e finanza più dinamiche, potenza militare consolidata, industria della difesa di eccellenza tecnologica. Più che comprensibile, dunque, che l’Unione cerchi di non privarsi della diversità britannica che la rafforza e arricchisce di una dialettica intellettual-esistenziale che, in sua assenza, svanirebbe, schiacciata su una soffocante uniformità, sul piatto conformismo da pensiero unico che divora l’euro. Ma possibile che per sopravvivere l’euro non abbia altra strada che farsi tutto tedesco e l’Unione quella di farsi più inglese, cioè meno integrata? Sembrerebbe di sì. Nel negoziato con Londra, per la prima volta in 60 anni di storia, l’Ue ha attivato il diritto di recesso di un suo Stato membro (art.50) con un accordo che crea un precedente da seguire. Per la prima volta ha accettato una clausola di opt-out non da una politica ma dal suo principio fondante di un’«Unione sempre più stretta». Per la prima volta la legislazione europea potrà essere rimessa in discussione dai parlamenti nazionali (quorum del 55% e 16 Stati). Per la prima volta i paesi fuori dalla moneta unica avranno il diritto di opporsi a decisioni dell’eurozona che ne riguardino maggiore integrazione e unione bancaria. Per la prima volta, infine, l’Ue acconsente a limitare una delle libertà fondamentali del mercato unico, il diritto alla mobilità dei propri cittadini- lavoratori (non di rifugiati e immigrati da paesi terzi) e a discriminarne i benefici sociali rispetto agli inglesi.
Sono tutte concessioni che non solo rendono reversibili conquiste europee fondamentali come il mercato unico, ma riconoscono, de jure oltre che di fatto, la superiorità di interessi e istituzioni nazionali rispetto a quelli europei (il contrario di quanto stabilito finora dalla giurisprudenza europea), oltre al diritto di interferenza nelle politiche comuni più avanzate, vedi euro, da parte di chi preferisce starne fuori. L’identità dell’Unione ne esce snaturata: il primato delle spinte integrative cede il passo al trionfo delle pulsioni nazionaliste, protezioniste ed euroscettiche, in breve alle rivendicazioni dei movimenti populisti che dilagano ovunque, accumulano consensi ma non cessano, a parole, di essere messi all’indice da Governi in carica e partiti tradizionali. Da anni l’Europa boccheggia sotto l’assedio delle proprie contraddizioni. Che però ora entrano giuridicamente nel suo Dna: e non se gli inglesi usciranno ma se decideranno di restare nel club. Quale credibilità può avere questa Ue barcollante che di fatto premia le spinte centrifughe? C’è chi si auto-assolve teorizzando il salto di qualità integrativa del vecchio nucleo duro, la rifondazione di un’Europa articolata su diversi cerchi di integrazione. A parte la profonda crisi dell’intesa franco-tedesca, in quel nucleo c’è l’Olanda che ha appena fatto carta straccia, via referendum consultivo, del Trattato di associazione con l’Ucraina già ratificato a 28, parlamento olandese compreso, rimettendo da sola in discussione certezza del diritto e impegni internazionali Ue.
Per chi non fosse convinto, un recente sondaggio, condotto in 8 paesi Ue, 6.000 intervistati, dice che il 33% in media degli europei voterebbe per la propria Brexit: in testa italiani (57%) e francesi (55). Dove è il nucleo duro su cui costruire in democrazia? «L’idea europea è vuota perché partorita da intellettuali, il che spiega il suo genuino appello alla mente e il suo flebile appello al cuore», ripeteva il filosofo francese Raymond Aron. Oggi l’Europa sembra capace solo di afasia: perfino nella comunicazione del sue tante realtà positive. Al punto che il 35% degli inglesi la ritiene guerrafondaia e solo il 19% la crede portatrice di benessere.
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