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Hillary e le tre rivoluzioni dell’America

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L'Editoriale|dopo la nomination

Hillary e le tre rivoluzioni dell’America

Hillary Clinton ha fatto storia. Con la vittoria in California è stata la prima donna a rivendicare subito dopo la nomination di un partito americano per conquistare la Casa Bianca. Già questa è una rivoluzione, con ramificazioni profonde per la mobilitazione del voto femminile. Ma la vera sfida è un’altra, riuscirà Hillary a fare storia fino in fondo, conquistando anche la Casa Bianca? Fino a una settimana fa c’era un’opinione diffusa che Donald Trump fosse troppo forte per lei. Da oggi le carte sul tavolo si sono ribaltate: la Clinton, salvo problemi di email o di altri scandali, appare improvvisamente più solida e più forte del Donald. Soprattutto dopo le note dichiarazioni razziste di Trump contro un giudice texano di origine messicana.

Ma dietro lo scontro fra i due, che ci porterà sorprese, scandali, eccitazione ci sono cambiamenti molto più profondi che riguardano la nazione americana in crisi. Abbiamo visto in queste primarie incredibili delle componenti rivoluzionarie che non si vedevano dai tempi dello scontro fra Ronald Reagan e Jimmy Carter, quando ci fu lo scontro tra il paradigma statalista di radici roosveltiane e quello che puntava tutto sul libero mercato.

Trump è a suo modo un rivoluzionario. Non si era mai visto che un candidato prestato alla politica potesse vincere contemporaneamente contro 16 concorrenti, inclusi quattro governatori e alcuni senatori. Di più, che potesse sconfiggere in pochi mesi l’establishment del partito repubblicano e un presidente della Camera del calibro di Paul Ryan. La rivoluzione Trump porta con sè una retorica che prevede l’insulto, che aggredisce la correttezza politica e che punta sulla non ideologia: dietro il ciuffo biondo/rossastro del Donald non c’è un pensiero politico, c’è soltanto un personaggio mediatico, c’è solo una celebrità televisiva, che improvvisa posizioni per poi disconoscerle subito dopo. Trump ha portato un cambiamento radicale nella politica americana: ha dato sfogo all’idea, comprensibile nell’era dei social network, che un personaggio virtuale possa salvare il Paese.

Ha fatto da catalizzatore per una ribellione contro l’establishment e la globalizzazione, covata dalla classe media, dal lavoratore bianco diseredati dal sogno americano. C’è da chiedersi se i 100 milioni di indipendenti centristi che voteranno l’8 novembre e determineranno l’esito elettorale saranno pronti a varcare il ponte trumpiano verso la negazione dei valori storici di questo Paese: rispetto del prossimo, trasparenza, generosità, accoglienza di immigrati. La risposta è no.

C’è poi la rivoluzione Sanders. Il suo messaggio contro l’establishment e la globalizzazione non è diverso da quello di Trump, ma il suo pubblico è fatto da giovani idealisti che dopo essersi indebitati per 250mila dollari per una laurea si trovano senza lavoro. È fatto dai militanti della sinistra del partito democratico che ritrovano una voce dopo essersi sentiti emarginati, dai derelitti degli slum, dalla stessa classe media che, non potendo seguire Trump nei suoi commenti retrogradi in termini di diritti civili, si affida a lui. La rivoluzione Sanders, di nuovo anti establishment, ha fatto sognare, ha mobilitato un voto che prima restava a casa. Ed è sulle ali di questo successo che Bernie non si rassegna alla sconfitta. Oggi ne parlerà con Obama alla Casa Bianca. Ed è anche possibile che decida di spaccare il partito. Ma la conclusione più normale è che stia solo negoziando un prezzo per portare in dote la sua base elettorale: sarà vice presidente? Difficile. Avrà un ministero importante? Probabile.

Sul piano politico interno la rivoluzione comune a Sanders e Trump è aver messo in crisi un sistema di finanziamento elettorale collaudato e consolidato. Sul piano economico entrambi hanno creato una forte resistenza popolare all’idea del libero commercio e dei mercati unici. Anche la Clinton non potrà resistere a questo movimento: almeno per qualche tempo Tpp e Ttip sembrano destinati agli archivi. Da oggi, passando per le convention e fino all’8 novembre, Hillary dovrà controllare Sanders e sconfiggere Trump se vorrà chiudere il suo percorso storico diventando la prima donna a guidare il Paese. Può farcela.

La sua vittoria schiacciante in California e in altri stati, decisiva per affermare la sua credibilità politica in seno al partito democratico e davanti alla nazione, supera le riserve di molti sulla sua simpatia o capacità di comunicare. Dopo mesi di relativa passività la sua campagna ha schierato in rapida successione il discorso anti Trump di Barack Obama alla Rutgers University; ha scelto il marito Bill Clinton per scalzare Trump dal cuore degli uomini bianchi delusi, mascherando questo ruolo con un incarico di zar economico. Infine, a ridosso del voto in California, ha pronunciato l’efficacissimo discorso sulla sicurezza nazionale per attaccare Trump con una violenza fino ad allora sconosciuta. I sondaggi ci dicono che la corsa fra Hillary e il Donald è molto stretta, 44% per lei, 42%. Ma per strada, nelle case, sentendo le reazioni delle persone, quella distanza oggi appare più grande. La rivoluzione di una donna alla Casa Bianca sembrerà anche la meno efficace, ma in questo 2016 potrà riportare all’ordine la rivoluzione socialista di Sanders e sconfiggere la rivoluzione qualunquista di Trump.

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