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Il deficit dell’Europa si chiama produttività

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L'EDITORIALE

Il deficit dell’Europa si chiama produttività

  • –di Donato Masciandaro
(Afp)
(Afp)

Produttività, fate presto. Dopo le parole del presidente di Confindustria Boccia e del governatore della Banca d’Italia Visco sono arrivate quelle del presidente della Banca centrale europea Draghi. Tre voci istituzionali, uno stesso tema: porre al centro della politica economica il tema della produttività, che appare impantanato – quantomeno in Europa – nello sterile dibattito tra il rigore dei falchi dell’austerità e le velleità delle colombe neo-stataliste. Due visioni miopi, non a caso cavalcate da chi vive di orizzonti corti – i politici – ed entrambe critiche con la attuale politica monetaria della Bce, che devono al più presto essere superate adottando una visione più lungimirante, non a caso fatta propria dalle tre istituzioni: capire in ciascun contesto istituzionale, qual è il miglior mix tra politica della domanda e dell’offerta per avviare una ripresa della produttività. Ed è una scelta tecnica che può essere attuata solo se si ha la volontà politica di superare il piccolo cabotaggio delle scadenze elettorali, o dei paletti ideologici.

È un bene che il tema della produttività sia tornato al centro del dibattito di politica economica, in Italia ed in Europa. Perché finora le scelte di politica economica hanno per lo più vissuto sul miope dibattito tra i falchi dell’austerità e le colombe del neo-statalismo, che ha come corollario la critica alla politica monetaria che la Bce sta mettendo in atto.

In primo luogo l’attenzione alla produttività ha di per sé il merito di allungare l’orizzonte della prospettiva di politica economica. Se in guarda alla caduta del prodotto per lavoratore, ci accorgiamo che le ferite nella capacità di produrre valore economico hanno radici molto più profonde della (lunga) recessione dalla quale stiamo provando ad uscire. In secondo luogo emerge il respiro corto della contrapposizione tra posizioni radicali che finora si è osservato nell’indicare quale sia il migliore disegno di politica economica per uscire dalla Grande Crisi.

Da un lato, vi è la posizione che vede il ciclo economico come un’oscillazione, più o meno profonda, intorno ad un trend strutturale, le cui caratteristiche sono tracciate dalla fisionomia dell’apparato produttivo, in particolare dal suo livello di efficienza.

Se vi è una stagnazione prolungata, occorre guardare alle caratteristiche di fondo di tutti i mercati. In particolare: il livello di concorrenza nei mercati dei beni e servizi, il grado di flessibilità nel mercato del lavoro, il livello di innovazione ed efficienza dei sistemi di produzione e di distribuzione delle risorse, e – da ultimo ma non affatto ultimo – il livello di efficacia della governance pubblica entro cui le imprese operano.

Per cui la ricetta economica dei falchi è pronta: la stagnazione è figlia di un’offerta aggregata anemica, che può essere rinvigorita solo da riforme strutturali, il cui impatto, attraverso il meccanismo delle aspettative, è però immediato. In parallelo, le politiche di stimolo della domanda aggregata sono velleitarie. La politica fiscale deve essere austera: il rigore di bilancio offre aspettative di bassa tassazione, che stimola la propensione all’investimento e quella al risparmio. La politica monetaria non deve essere inutilmente espansiva, come quella messa oggi in campo dalla Bce. Continuare una politica monetaria aggressiva significa consolidare le aspettative di stagnazione. Al contrario, una normalizzazione della politica monetaria, riportando il profilo dei tassi al più presto in territorio positivo, farebbe da traino a una normalizzazione delle attese, quindi dei mercati, quindi della dinamica di reddito e prezzi. La ricetta dei falchi trova la sua sponda politica nei governanti che vedono nelle politiche aggressive della domanda, e nei correlati effetti distributivi, una minaccia per il proprio consenso, elettorale o ideologico. Per cui, di volta in volta, ci sono falchi tedeschi, ma anche spagnoli, o inglesi.

Ai falchi si oppongono le colombe: il ciclo economico tende a essere endemicamente instabile, perché instabili finiscono per essere i comportamenti di operatori e imprese, anche se ciascuno di essi si sforza di essere razionale e lungimirante. La stagnazione è l’effetto ultimo e prolungato dell’incapacità dell’unico operatore che può avere la vista lunga – lo Stato – di guidare e dirigere lo sviluppo dei mercati. La depressione del settore privato può essere curata da un rinnovato ruolo attivo degli operatori pubblici.

La ricetta delle colombe è speculare rispetto a quella dei falchi: le riforme strutturali sono importanti, ma la loro capacità di dispiegare effetti rilevanti e regolari sulla condotta di famiglie e imprese è lunga e incerta. Occorrono – subito e molto – interventi dal fronte della domanda aggregata. La politica fiscale deve essere attiva e aggressiva, partendo – ma non fermandosi – a una ripresa degli investimenti infrastrutturali. La politica monetaria deve osare di più: se tassi negativi e iniezioni massicce di liquidità non sembrano dare finora esuberanza alla domanda, occorre modificare in modo ulteriormente non convenzionale sia il profilo degli obiettivi che quello degli strumenti, e di riflesso dimensioni e rischiosità del bilancio della Bce. Anche la ricetta delle colombe trova supporto politico, da chi ne vede i vantaggi per il proprio consenso, anche in alcune code – sempre più spesse – del populismo nazionale ed europeo. Per cui è facile riconoscere colombe francesi, greche, ma anche spagnole ed italiane.

Falchi e colombe offrono ricette opposte, ma con tratto comune: sono pensieri unici, quindi miopi. Perché solo un miope non può riconoscere che la diversità dei contesti istituzionali e storici impone di riconoscere che se è vero che esiste nei Paesi avanzati – inclusi gli Stati Uniti – un problema comune, cioè la stagnazione della produttività, e altrettanto vero che radici e soluzioni sono diverse da caso a caso.

Se si guarda all’Italia, a parità di politica monetaria, è evidente che solo le riforme strutturali – a partire da quelle delle istituzioni pubbliche – possono dare la scossa a un Paese che ha limiti di manovra della politica fiscale oggettivamente fissati dal suo stock di debito pubblico, che sistematicamente supera la sua capacità di produrre reddito dall’Unità d’Italia a oggi. Ricomporre spesa pubblica e carico fiscale in modo da coniugare crescita e sostenibilità fiscale non sono richieste dell’Unione, ma esigenze del Paese. Se Confindustria, Banca d’Italia e Bce fanno riprendere centralità al tema della produttività è perché occorre un orizzonte lungo – di tipo politico – per fare scelte tecniche, anche se immediatamente non popolari. Altrimenti, prevale nell’Europa un equilibrio stagnante che paradossalmente è figlio della contrapposizione tra falchi e colombe: per non scontentare nessuno, la soluzione è inevitabilmente di piccolo cabotaggio. Emblematico il caso – giustamente sottolineato nelle Considerazioni finali – dell’Unione bancaria, in cui il necessario smantellamento delle reti di protezione nazionale non è stato però accompagnato dall’altrettanto necessaria costruzione delle impalcature europee. Se la miopia continua a non essere curata, sbattere contro un palo – economico e non – sarà sempre più probabile.

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