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Scenari

Dalla Libia all’Iraq: il rischio «balcanizzazione» nel dopo-Isis

Proclamato due anni fa da Al Baghdadi a Mosul, il Califfato è in ritirata, forse sull'orlo della sconfitta. Cosa lascerà dietro di sé la caduta dell'Isis? In alcuni casi un rebus geopolitico inestricabile, delle società disintegrate e il timore che il terrorismo jihadista non finirà così presto. Continua pagina 21

Tra Siria e Iraq hanno dovuto abbandonare città e villaggi almeno 12 milioni di persone, le loro vite sconvolte insieme alla carta del Medio Oriente. Lo Stato Islamico si è propagato nella dissoluzione e nell’anarchia degli Atati arabi, dopo il crollo di Saddam nel 2003 per l’invasione americana e con le rivolte del 2011 cui hanno fatto seguito guerre civili e per procura sanguinose, dalla Siria allo Yemen.

La sconfitta dell’Isis potrebbe non essere la fine di queste guerre ma un nuovo inizio. Quali saranno i vincitori e i vinti? Si delinea una sorta di nebulosa balcanizzazione del Medio Oriente senza precedenti che rende ancora più lontano e impraticabile quell’accordo di spartizione coloniale di Sykes-Picot di cui è ricorso quest’anno il centenario. Usa e Russia hanno interessi diversi nella regione ma forse uno è comune: mantenere i confini intatti, ritagliando delle aree di autonomia. Ma come tutti sanno si tratta di una fiction più che di una presa d’atto della realtà: il ritorno a casa di milioni di rifugiati è complicato, può durare anni e alimentare nuove tensioni.

Eppure la delimitazione in zone di influenza si sta concretizzando: la Russia e gli Stati Uniti partecipano più o meno direttamente al “gran premio” di Raqqa, una sorta di corsa armata alla liberazione della capitale jihadista che ricorda quella di Berlino nel 1945. Teheran non intende rinunciare al suo sostegno a Damasco e alla guida degli sciiti dall’Iran alle coste del Mediterraneo, l’Arabia Saudita si gioca il suo prestigio di anacronistica monarchia dei Saud, custode dei luoghi sacri musulmani, come portabandiera dei sunniti mentre la Turchia di Erdogan sta vivendo come un incubo una duplice possibile sconfitta: la mancata caduta di Assad e un eventuale stato curdo ai suoi confini. Minoranze come i cristiani e gli yazidi invocano protezione internazionale, i curdi, gli unici che hanno resistito al Califfato, rivendicano, nel crollo degliStati arabi, una loro entità autonoma.

Con la caduta della Sirte in Libia nelle mani delle milizie di Tripoli e Misurata si allunga la lista delle roccaforti strategiche perse dai seguaci del Califfo. Si offusca la stella del generale Khalifa Haftar che intendeva presentarsi, con il sostegno dell’Egitto e della Francia, come il liberatore di tutta la Libia: ora deve pensare a tenersi la Cirenaica mentre il governo di Sarraj a Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale e asserragliato nella base militare di Abu Sitta, segna un punto a suo favore.

Ma che fine faranno i jihadisti e la loro “legione straniera”? Un interrogativo che vale per la Libia, con le frontiere fuori controllo che tracimano nel Sahel minacciando la sicurezza di Tunisia e Algeria. Ma anche per Siria e Iraq: cosa accadrà del jihadismo locale, dove verranno incarcerati i prigionieri e come eventualmente saranno reintegrati? La spirale delle vendette settarie è in agguato. Le esperienze amare e fallimentari dell’Iraq con Al Qaeda ma anche dell’Afghanistan con i talebani devono spingere a una riflessione. Come pure inquieta gli occidentali la sorte dei foreign fighters che tenteranno in ogni modo, come già stanno facendo, di riguadagnare i confini della Turchia, che avevano attraversato percorrendo l’autostrada della Jihad, per trovare una via di fuga. Questo è un serbatoio di destabilizzazione e terrorismo che può tornare ai Paesi arabi di origine, in Europa, nel Caucaso. Come tornare dall’Afghanistan quelli che avevano partecipato come mujaheddin alla guerra contro l’Armata Rossa: siamo oggi alla seconda generazione cresciuta con la guerra in Iraq, Siria, Libia, Yemen.

In Iraq i jihadisti hanno perso da poco Fallujah, sei mesi fa Ramadi, due roccaforti del sunnismo nella provincia Al Anbar che si erano opposte all’occupazione americana del 2003. Ma in Iraq l’Isis ha perduto anche Sinjar per l’offensiva guidata dai curdi e ora questa diventata la capitale degli yazidi, una delle comunità prese di mira dal Califfato insieme a cristiani e musulmani sciiti. In Siria tre mesi fa Palmira è caduta sotto i colpi dell’aviazione russa, in appoggio a Bashar Assad, e della Brigata di Fatima, milizie sciite provenienti da Libano, Iraq e Afghanistan, una sconfitta che ha aperto la strada aa Raqqa, cuore del Califfato mentre una coalizione arabo-curda sostenuta da Washington ha preso Manbij, asse principale di rifornimento per i jihadisti dalla Turchia.

Tra Siria e Iraq un anno fa l’Isis controllava un territorio di oltre 200mila chilometri quadrati con una popolazione tra gli 8 e i 10 milioni di persone: oggi ha perduto il 40% dei territori conquistati. Le milizie di Baghdadi continuano tenere in pugno Mosul, la provincia di Ninive, una parte di Al Anbar e alcune delle provincie orientali della Siria mentre dopo l’offensiva a Nord si Aleppo hanno ripiegato sul confine turco.

La guerra contro il Califfato rappresenta però due conflitti assai diversi. In Siria l’Isis è combattuto dal regime di Damasco e dai suoi alleati, russi, Hezbollah e milizie sciite addestrate da Teheran mentre un ruolo fondamentale a Nord è svolto dai curdi. Della coalizione Usa qui non si è vista traccia: ne fanno parte Paesi come l’Arabia Saudita che ha stretti rapporti con l’integralismo islamico wahabita e una credibilità ai minimi. Sul fronte siriano l’Occidente è nemico dell’Isis ma anche nemico del regime di Assad mentre in Iraq l’esercito iracheno e le milizie curdi dei peshmerga sono alleati di americani ed europei.

In poche parole se l’Isis perde in Siria per gli occidentali è una mezza sconfitta mentre se fosse battuto in Iraq sarebbe una vittoria. Si incrociano quindi due guerre sanguinose contro lo stesso bersaglio ma con obiettivi politici contrastanti e forse inconciliabili.

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