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La fuga inglese e l’ansia dell’Europa che non c’è

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L'Editoriale|le divisioni dell’unione

La fuga inglese e l’ansia dell’Europa che non c’è

  • –di Adriana Cerretelli

«Nessun paese da solo può guidare l’Europa, soprattutto non può farlo la Germania»: con la solita ruvida franchezza Wolfgang Schauble affonda il dito nelle piaghe del crescente disorientamento europeo alla vigilia del referendum su Brexit, lanciando agli inglesi un accorato appello a restare.

Mancano ormai 10 giorni al verdetto popolare sul possibile divorzio del secolo: se si realizzasse, potrebbe cambiare il corso della storia europea, forse ancor più della caduta del Muro di Berlino e della fine dell'ordine di Yalta.

La sterlina continua a scivolare, le Borse cedono terreno dovunque, perché dovunque si teme un nuovo shock globale otto anni dopo il fallimento di Lehman Brothers, un’iniezione di instabilità generale nel mezzo di una congiuntura economica fragile e già carica di troppe incertezze.

Non è ancora detta l'ultima parola ma i fautori dello strappo sembrano passati in testa. La controffensiva di chi si oppone è in corso ma, nell'attesa, l’Europa è in grande fibrillazione, preda di una rara crisi di ansia collettiva. A ragione.

L’uscita della Gran Bretagna la priverebbe della sua seconda economia, della sua prima piazza finanziaria, dell’unica potenza militare insieme alla Francia, di una democrazia antica e inviolata. Di equilibrio, pragmatismo culturale e libertà di pensiero, tre doti che visibilmente le mancano e in parte spiegano la crisi di identità in cui si dibatte. La diserzione di uno dei tre maggiori azionisti toglierebbe poi credibilità a una spa già infragilita da troppe divisioni interne.

Come si è fatta sorprendere in questi anni dall’emergenza greca e dintorni, fino a trascinare l’euro sull’orlo dell’abisso, così ora l’Unione si ritrova psicologicamente impreparata ad affrontare un evento che continua a suscitarle incredulità. In entrambi i casi i Trattati Ue hanno fornito un supporto sì ma limitato, perché quasi mai la realtà è docile e ubbidiente alle briglie che le imporrebbe l'immaginazione dei giuristi.

Anche se ora sta correndo ai ripari, delineando tutti i possibili scenari di un’eventuale uscita controllata di Londra per evitare tutte le possibili fonti di panico sui mercati, difficilmente il divorzio, se ci sarà, potrà evitare di trasformarsi in un cataclisma europeo: per l’inevitabile effetto imitazione che si porterà dietro ma anche per la lunghezza dei negoziati necessari per portarlo a termine. E non solo.

La Groenlandia, unico precedente in capo al mondo, ci mise quasi tre anni per concludere la sua secessione ma doveva di fatto trattare solo sul settore della pesca. Nel caso di Brexit ce ne vorranno almeno sette di anni, prevede Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, tra i due previsti dal Trattato per concordare l’uscita e gli altri cinque realisticamente necessari per trovare l’accordo a 27 su un nuovo rapporto con Londra, tutto da definire e tutto da ratificare sempre a 27 e sempre che non si verifichino incidenti strada facendo.

Senza dimenticare che l’Europa non potrà essere di manica larga nelle concessioni, per non incoraggiare pericolosi effetti domino. Anche ammesso che Brexit restasse un caso isolato (ma è improbabile) e che i tempi biblici del divorzio non impedissero una parallela ripartenza del progetto europeo (difficile perché in democrazia non si decide senza consenso popolare, oggi in dissolvenza), che tipo di Europa costruire senza gli inglesi? Sulla carta l’impresa non sarebbe affatto impossibile. Ma, anche suo malgrado, l’egemonia culturale della Germania e del suo modello diventerebbe ineludibile ma non necessariamente accettata da tutti senza reagire. Schäuble ne è tanto convinto da affermare: «Gli altri invocano sempre la leadership tedesca salvo criticarla appena la esercitiamo». Per questo il ministro delle Finanze di Angela Merkel aggiunge: «Abbiamo bisogno della Francia e di una Polonia più forte e impegnata. L’Europa però è molto più equilibrata con la Gran Bretagna che senza. Più gli inglesi sono coinvolti e meglio funziona l’Europa».

La superpotenza europea riluttante chiama Londra con sincera insistenza perché sa che oggi né a Parigi né a Varsavia può trovare spalle altrettanto solide e volonterose per rifondare un’Unione allo sbando. Ci si può chiedere però se oggi il paese di David Cameron sia lo stesso cui pensa Schauble e non invece l’ennesimo esponente di un club di sbandati. La risposta forse arriverà dall’esito del referendum.

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